Friday, March 09, 2007

Intervista ad un soldato (disertore) americano in Iraq

Fonte: La Stampa Online

Il primo giorno a Ramadi ero terrorizzato. La nostra aeronautica aveva appena finito di bombardare questa gente. Non appena siamo usciti dai nostri veicoli abbiamo iniziato a perlustrare le loro vie, a piedi. Con quasi 50 chili di armamento, equipaggiamento e vestiti sulla schiena, mi muovevo come una mucca. Mi ricordavo le ultime parole di mia moglie Brandi prima di decollare: «Non lasciare che questi terroristi vengano vicino a te, Josh. Anche se bambini. Prendili prima che ti prendano loro». Ero in Iraq da meno di 24 ore e già avevo strane impressioni. In primo luogo, ero vulnerabile e questo non mi piaceva. Anche con tutti questi soldati e tutte queste attrezzature, sapevo che ovunque, in qualunque momento, qualche iracheno con una pistola, nascosto dietro a un muro e con una vista decente avrebbe potuto spararmi più velocemente di un click del mouse. In secondo luogo, con appena un piede in guerra, non capivo che cosa stessimo facendo. Qualcosa non tornava. Non avevamo trovato nulla nella casa di una ragazza, ma l’avevamo devastata per bene in appena 30 minuti e le avevamo tolto i suoi fratelli. All’interno l’altro squadrone stava ancora mettendo tutto sotto sopra. Non mi piaceva rimanere fuori a guardare questa ragazza, nella fresca aria di aprile, prima dell’alba, a Ramadi. In inglese mi ha chiesto: «Dove state portando i miei fratelli?» «Non so, signorina» ho risposto. «Perché li state portando via?» «Mi dispiace ma non posso dirlo». «Quando li riporterete indietro?». «Non posso dire neanche questo». «Perché state facendo questo a noi?». Non potevo risponderle nemmeno a questa domanda. Non mi piaceva non potere rispondere né a lei né a me. Rivoltare e saccheggiare case era uno dei compiti più frequenti in Iraq. Prima di tornare a casa, ho partecipato a circa 200 incursioni. Non abbiamo mai trovato armi o segni di terrorismo. Mai ho trovato una cosa che potesse giustificare il terrore che gli abbiamo inflitto, abbiamo fatto saltare porte, picchiato, ammanettato e spedito nelle prigioni gli uomini. Un’incursione fu ancora peggio. Era una casa carina su due piani, tranquilla e abbastanza isolata. Come di consueto, ho messo la carica di esplosivo C-4 sulla porta e l’ho fatta saltare. Quando siamo entrati in casa, le donne stavano vacillando nelle loro stanze. Tre ragazze adolescenti hanno urlato quando ci hanno visto. Qualcuno del mio squadrone le ha afferrate e le ha immobilizzate puntando loro una pistola mentre gli altri facevano irruzione. Non abbiamo trovato neanche un uomo, solo altre sei donne fra i 20 e 30 anni. I miei compagni non riuscivano a trovare nulla, nemmeno una pistola - e meno le trovavano, più erano distruttivi. Fuori c’era il soldato Hayes con una donna sotto un desolato porticato. Le ha puntato alla testa il suo M-16, ma lei non smetteva di gridare. «Chi siete per fare questo?» diceva. Hayes le ha risposto di tacere. «Non vi abbiamo fatto nulla», continuava. Hayes stava cominciando a perdere la calma. Le ho detto che c’era stato ordinato di venire qua e che non potevamo risponderle, ma lei continuava a sbraitare. «Americani siete disgustosi! Chi pensate di essere per farci questo?». Hayes l’ha colpita con la canna del suo M-16. È caduta faccia a terra, nella sporcizia e nel silenzio. Ho spinto Hayes via. «Che cosa stai facendo?» Gli ho detto. «Hai una moglie e due bambini! Non picchiarla in questo modo». Lui mi ha guardato con gli occhi pieni di odio, come se fosse pronto a uccidermi per aver detto queste parole, ma non ha più toccato la donna. Quest’episodio mi ha turbato particolarmente perché ho visto Hayes in azione altre volte in Iraq, e mi era sembrato uno dei soldati più controllati e calmi del mio squadrone. Ho capito che se uno pacato come lui ha potuto colpire una donna in quel modo allora lo avremmo potuto fare tutti. E da allora ha iniziato ad avere gli incubi. Ho capito che noi, soldati americani, eravamo i terroristi. Stavamo terrorizzando gli iracheni. Intimidendoli. Picchiandoli. Distruggendo le loro case. Probabilmente stuprandoli. Quelli che non abbiamo ucciso avevano tutti i motivi del mondo per diventare loro stessi terroristi. Visto quello che stavamo facendo a loro, chi poteva biasimare il loro desiderio di uccidere noi e tutti gli americani? Quest’amara verità si è alloggiata come un cancro nel mio intestino. Cresceva e si spargeva e mi faceva impazzire con il passare dei giorni. Noi, americani, eravamo diventati i terroristi in Iraq.

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