Saturday, May 05, 2007

Cinesi nella ricca Macerata. (magari mi chiamano anche al tribunale per fare da interprete...)

Fonte: Il Resto del Carlino Online

CAPANNONI DELLA VERGOGNA
Vivevano come schiaviscovata la 'Chinatown' nel cuore della provincia
Blitz a Sambucheto: trovata dalla polizia una fabbrica-casa con venticinque cinesi che vivevano in condizioni disumane
Macerata - LA CITTÀ che produce. La città del tessile. La città paciosa e opulenta. Che vive sul lavoro. Di una Chinatown sommersa. Di decine di omini che tagliano, cuciono e ricamano. La città sazia che cammina in tacchi e doppiopetto sopra un tunnel sotterraneo. Di talpe con gli occhi a mandorla, che scavano e tirano dritte. Senza vedere l’orizzonte. Che è sigillato dai vetri opachi di tre capannoni, sui quali è stampigliato un «Vietato l’accesso ai non addetti ai lavori». E’ il 4 maggio. Del 2007. A Macerata. Anzi, Sambucheto, zona industriale, polmone produttivo della provincia che fattura e fa di conto. Mezz’ora dopo le sirene di mezzogiorno, ragazzi e ragazze della squadra mobile e di quello che nel vocabolario poliziesco è l’ufficio prevenzione generale e soccorso pubblico della questura, spalancano le porte dell’inferno: tre capannoni, uno a poche centinaia di metri dall’altro. Il primo si cela dietro la Regina. E’ una Caienna, a due gironi danteschi: il piano terra, un opificio di macchine da cucire, e il piano superiore, un letamaio mozzato da intercapedini e buchi puzzolenti.

L’ARRIVO dei poliziotti è come una pedata a un formicaio: i cinesi fuggono dappertutto, anche sui tetti. Ma la morsa è a tenaglia. Hanno gli occhietti sbarrati, spauriti. C’è chi sgranocchia una mela. Ignaro. Uno, moretto, allarga le braccia: «Questo è lavoro», dice. Gli hanno insegnato che è tutto normale: trottare come schiavi alla macchina da cucire, i luridi cessi, solo due, al piano terra e al piano «soggiorno», le cucine imbrattate, le nicchie e i buchi da sorci dove appoggiano la testa, la sera, quando smontano. E se smontano.

Vivono insieme, donne e uomini. E c’è anche un minorenne. Gli uomini di Walter Busiello, dirigente delle volanti, e di Alessandro Albini, il capo della squadra mobile, non credono ai loro occhi. Dal capannone infame sollevano scatoloni e scatoloni di pc portatili, telefonini e registri. Perché la tecnologia si mimetizza nel primitivo, nella tana degli schiavi. Poi, a terra, sono sparpagliati cappellini di marca, non ancora cuciti. Firmati, con le macchine della vergogna. Al piano terra, tra mucchi di legna per scaldarsi e panni stesi, umidi e maleodoranti, ci sono le macchine. Due stanzoni, solcati da intercapedini. Ma bisogna infilarsi di sopra. Perché la città ricca e sazia si nutre del grasso che insozza i loculi notturni dei nuovi schiavi: buchi ricoperti da pareti in cartongesso e compensato, con prese d’aria per tirare una boccata d’ossigeno. Il fuggi fuggi è pure sui tetti. Ma un’autoscala dei pompieri s’arrampica fin lassù per strappare allo sfruttamento gli ultimi piccoli schiavi. Poi gli agenti traslocano nel secondo capannone. La scena è simile. Nelle auto della polizia finiscono in 25 (15 ragazzi e 10 ragazze), 8 in regola col permesso.

FUORI dai corridoi della questura, c’è la solita città che ingrassa. E che sapeva, ma teneva la bocca chiusa. Da un pezzo c’era chi stava dietro a quello strano viavai di occhi a mandorla, a Sambucheto. Poi, il blitz. «Ma noi non abbiamo visto nulla», dicono intorno a quei capannoni. Cadono dalle nuvole. Ma vicino a quel letamaio di coscienze, c’è anche chi lavora mattina e sera. E davanti ai taccuini dei cronisti se la cava con un «no comment». Che non vuol dire niente. Come la loro indifferenza. Eppure dentro quei mostri in cemento, senza insegne e senza nome, doveva starci qualcuno. Doveva nascondersi qualcosa. C’era una prigione. E dentro, quasi trenta schiavi. Macerata, 4 maggio 2007.

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