Friday, November 09, 2007

La mia sulla Rivoluzione Culturale




Molto umilmente vorrei dire la mia sulla Rivoluzione Culturale. 无产阶级文化大革命, letteralmente "Grande Rivoluzione Culturale Proletaria", fu lanciata da Mao Zedong nel 1966, durò fino alla morte del presidente stesso (settembre 1976) ma il periodo più radicale terminò tre anni dopo la sua data di inizio. Ne fu molto discusso (ma non abbastanza e con troppa superficialità) in occidente negli ambienti intellettuali e ispirò la sinistra radicale e i leader del '68 europeo. In Cina oggi ci si guarda bene dal tirare fuori l'argomento. Che cosa fu la Rivoluzione Culturale? In soldoni: il presidente Mao, lasciato fuori dalle scelte di partito e dalla guida del paese, tornò alla ribalta lanciando questo movimento al grido di "Bombordare il quartier generale". L'invito era rivolto alle Guardie Rosse, giovani e giovanissimi studenti della Cina tutta. Il nemico diventò tutto ciò che era vecchio, burocratico, tecnocrate, borghese, troppo interno ai meccanismi di partito e troppo lontano dalle masse. L'economia doveva essere subordinata alla lotta di classe, una lotta che non andava mai abbondata e anzi portata sempre in tasca (tramite il "libretto rosso di Mao", scritto in realtà dal delfino Lin Biao, lo stesso Lin Biao del "misterioso" incidente aereo in Mongolia qualche anno più tardi). Mao voleva epurare i revisionisti, i liberali del partito, gli "imborghesiti" (Deng Xiaoping, Liu Shaoqi, Peng Dehuai e molti altri), per un ritorno al comunismo di guerra, all'egualitarismo forzato, alla lotta permanente contro imperialismo e forze capitaliste. In pratica milioni di studenti spodestarono insegnanti, dirigenti di fabbriche, quadri, sindaci, capi villaggio, intellettuali, scrittori, artisti, contadini arricchiti e li obbligarono a fare autocritica, li torturarono, insultarono, li costrinsero al suicidio, li buttarono in cella e inghiottirono la chiave. Vennero chiuse università, ospedali, scuole, venne riformata l'arte, vennero svuotate le città. Disprezzati, gli intelletuali e i tecnici vennero mandati nei campi a lavorare e a "rieducarsi", i pochi posti di dirigenza tollerati vennero presi da giovani inesperti ma maledettamente "rossi", veri proletari, figli di contadini o operai. All'economia spezzarono le gambe, quasi eliminato il denaro, lo Stato si occupava di tutto. Chaos generalizzato, importante solo l'egualitarismo sociale e la lotta di classe. Altro che "la fiaccola dell'anarchia". Altro che "Sei borghese, arrenditi!", qui si trattava di "Sei borghese. Questa è una pistola. Noi non ce ne andiamo finché non te la punti alla testa e non premi il grilletto". Dovette scendere in campo l'esercito in tutto il paese e Mao a pregare le Guardie Rosse di tornare sui loro passi per placare la rivoluzione. Questo è quello che si legge solitamente nelle cronache occidentali e cinesi riguardo al tema.
Non bisogna essere borghese per inorridire di fronte a questi anni di chaos. A rivoluzione finita, condanne unanimi vennero da diverse parti della Cina e dal resto del mondo, dalle destre e dalle sinistre.
Personalmente, c'e' una cosa che mi affascina di tutto questo. Non credo mai nella storia dell'uomo sia successo quello che successe nella Repubblica Popolare a cominciare dal '66... Fu una strage di persone e di dignità umana (e questo è pressoché sempre accaduto nella storia) ma per la prima volta nella storia (e per un tempo così lungo e in un modo così organizzato, diretto ed "istituzionalizzato") i protagonisti furono i poveracci, i deboli, il proletariato... vittime per una volta furono invece i potenti, i (più) ricchi, i rispettati, "i massoni". Pensate che per una volta non è stato lo studente a prendere botte ed insulti dal docente barone ma il docente barone a prendere sputi ed essere umiliato di fronte agli studenti. Per una volta non è stato il contadino a crepare sotto le frustrate del latifondista ma il contadino più ricco a vedersi espropriato e messo in ridicolo di fronte ai lavoratori del villaggio. Per una volta non fu l'operaio a cucire scarpe per l'intellettuale ma il segretario a pregare il garzone di insegnargli a prendere in mano ago e filo. Il trionfo dell'assurdo. Il carnevale sociale. Il contrario di tutto. Il figlio che schiaffeggiava il padre, il marito ce serviva la moglie, il generale che si inchina al soldato, lo studente che boccia il professore, l'operaio che licenzia il padrone. In un paese di un miliardo di persone. Vasto come l'Europa. Per tre anni in forma più radicale e per dieci in forma più "leggera". Non mille anni fa, non nei racconti della Bibbia e del Corano, ma 30 anni fa in un paese che oggi ospita tanti di quei lavoratori e imprese straniere a capitale misto che non mi saprei neanche figurare.
E' stato un fallimento? Che lezione dobbiamo trarne? Credo la risposta vada in primis ascoltata dai cinesi, dal popolo cinese. In realtà non ci misero che due anni dalla morte di Mao per arrestare e condannare i principali responsabili della Rivoluzione Culturale e mandare al potere Deng Xiaoping, il padre dela capitalismo alla cinese, o del "socialismo di mercato" se preferite. Non ci misero molto a liquidare questi 10 anni di follia e aprire i mercati al mondo esterno, togliendo in pochi anni centinaia di milioni di persone dalla fame. E l'epilogo è la Cina di oggi, quella a manodopera a basso costo e puttane e cocaina (sempre a basso costo) per i cilindri occidentali. Gru, fabbriche e grattacieli a Shanghai: "Prima questo si chiamava capitalismo, ora si chiama socialismo" diceva Deng. Anche negli ambienti occidentali di sinistra la favoletta dell'egualitarismo alla cinese e della rivoluzione maoista ebbe vita breve.
Ma a me piace ancora consolarmi con l'idealizazzione di quel che possono essere stati quei tempi. E le parole "rivoluzione" e "culturale" mi balenano in testa quando vedo una banca mandare la polizia a requisire una casa o un terreno, quando vedo un marito ubriaco picchiare la moglie, quando vedo un insegnante usare punizioni corporali contro giovani studenti, quando vedo il vecchio conservatore usare barbare pratiche contro la nipotina. Allora penso ai quei vecchi slogan "Una Rivoluzione Culturale ogni cinque o sei anni!", "Meglio un mediocre ingegnere rosso che un ottimo ingegnere e basta", "Bombordare il quartiere generale!". E il saluto di Pietro Ingrao alla manifestazione di tre settimane fa: "La lotta... continua!"

Non finisce qui. Consiglio un liro che ho trovato per caso all'ambasciata italiana: "Red Color News Soldier", una testimonianza in inglese di un fotografo cinese, Li Zhensheng. Raccoglie foto della Rivoluzione Culturale, foto tenute nascoste negli archivi per 40 anni, foto che parlano da sole, guardatevi questo libro e non avrete bisogno di leggere nient'altro sui quegli anni. Vi riporto un paio di immagini...

1 Comments:

At 1:54 AM, Blogger Wild Child said...

Tema peso, eh? Anche a me piace la Rivoluzione e mi tengo un bel poster di Mao e Lin Biao che sventolano il libretto rosso a una folla di operai e minoranze etniche in un mare di bandiere rosse. E' fico, punto.

Però quando vedi certi cinesi, e li senti parlare, ascolti le loro opinioni, ti sorbisci le storie tipo "gli africani nascono negri, gli indiani sono bianchi anneriti dal sole" , ti verrebbe voglia di rispondergli così:
"Cari cinesi. Avete fatto fuori i padroni e vi siete liberati. Ma siete ancora la massa di proletari, bifolchi, contadini, ignoranti e plebei che eravate trent'anni fa, perché quelli da cui dovevate imparare li avete fatti fuori. In Cina oggi gli architetti, gli artisti, i manager, i maestri di kung fu, i medici anche quelli tradizionali, gli astrologi, gli scienziati, gli storici e anche i camerieri e le donne delle pulizie bravi dovete importarli da fuori, perché non ce n'è uno di voi che sappia fare queste cose in modo eccellente. Un storia di 5000 anni buttata nel cesso in una decade. Bravi. Tornatevene in campagna, che di gente che sa fare il suo lavoro son rimasti solo i contadini; gli altri son contadini travestiti".

Solo che se glielo dici si offendono. Perché, nel 2007, "contadino" in Cina è un insulto infamante, e tutti fan finta di non esserlo.

 

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