Monday, August 31, 2009

Diario di viaggio (XV): "I'm not an alcoholic, I'm a drunkard (alcoholics go to meetings)"

Ah Tel Aviv, la Tel Aviv che vive ventiquattro ore al giorno, la Tel Aviv tutta locali e bar, giovani in strada, puttane e cocaina, motociclisti, writers, skaters, la Tel Aviv musei d'arte e festival gay, la gente che si bacia per strada, due barboni ogni panchina, tossici al lato della strada, la Tel Aviv dei migranti asiatici e africani che fan i lavori piu' umili per i ricchi ebrei di origine russa o giu' di li', la Tel Aviv che non capisci proprio cosa cazzo c'entri in questa terra di profeti, religioni e guerre di religione.

Incontriamo finalmente Uri, ventitreenne studente d'arte, ex soldato e pacifista, non si definisce sionista. Con Uri scopriamo la Tel Aviv underground, il quartiere Florentin pieno di locali, birra sempre fredda e concertini in strada, murales e studenti. A quanto pare, a questi ragazzi ebrei non interessa molto parlare di politica, d'altronde han fatto tre anni di militare solo per dovere e di Palestina e palestinesi ne sappiamo molto piu' noi che ci siamo stati. A loro e' vietato entrare in citta' come Betlemme o Ramallah e sconsigliato andare persino in Egitto. Gli amici di Uri sono figli dell'alta borghesia, giovani pieni di voglia di divertirsi, di viaggiare e di vedere un futuro migliore. Per lo piu' atei di religione ed ebrei per cultura, villette a schiera e cane, la sera falo' fuori citta', vino e spinelli, giochi col fuoco e chiacchiere fino all'alba. Un po' come il nostro ferragosto. A breve anche a loro comincera' l'universita', che qui si fa dopo il militare, ovvero verso i 22/23 anni. Spesso dopo un anno di viaggio all'estero, per dimenticare gli anni col mitra in mano a controllare documenti ai check points. Scopro che molti di loro sono stati in viaggio in Italia o Cina. Eccolo il volto dei giovani israeliani.

In spiaggia incontro cinque quindicenni ebrei coi rasta e la maglietta dei AC-DC e Bob Marley, veri scoppiati che fumano narghile' di nascosto e parlano di droghette. Mi sembra di rivedere me. Due sono originari degli Stati Uniti. Anche loro sostengono il sionismo, non vedono di buon occhio gli arabi, pensano che sia un onore servire il paese col servizio militare. Mi chiedono di farsi una foto con me.
La sera, per le strade colme di senza fissa dimora e mendicanti, conosco Marcel, barbone ebreo di origine francese. Non parla bene inglese, usa il francese per parlarmi della sua vita. E' pazzo per meta' e pazzo anche per l'altra. Mi si presenta chiedendomi di dove sono e quale dio prego. Non avendone uno, scoppia a ridere e mi fa "Questo si' e' un bel problema!". Lui e' ebreo ma detesta gli ebrei perche' pensa siano tutti ladri attenti solo al denaro, gente che ti vende per due dollari. Secondo lui le torri gemelle di New York le han fatte crollare gli ebrei per mandare a puttane i mercati valutari. Aggiunge che al mondo bisogna fidarsi solo di due persone: la propria madre e la propria compagna. Mi saluta raccomandomi di infilarmi il passaporto nelle mutande prima di addormentarmi. Grande, Marcel.

Tel Aviv non ha storia, e' una citta' che ha cent'anni circa. Ma a sud di Tel Aviv si trova Jaffa (Yofa in ebraico), ex porto turco, una collinetta di antiche casette di pescatori e giardini, con a valle mercatini dell'usato e artigianato. Qui la popolazione e' in maggioranza araba. Da Jaffa si puo' vedere tutta Tel Aviv, il Mare Nostrum scagliarsi a tutta forza contro le bianche spiagge che anticipano i grattacieli e le viuzze di Tel Aviv. Nel centro, all'altezza di Allenby Street, c'e' un bel mercatino aperto fino al tramonto. Si vendono vestiti, oggettistica, frutta, verdura, dolci. Al tramonto i commercianti lasciano in strada la frutta non venduta e la via si riempie di barboni e punkabbestia che vengono a fare cena con gli avanzi della giornata di mercato. Il venerdi' c'e' un bellissimo mercatino delle pulci. Non c'e' molta polizia in giro, solo giovani soldati, molto dei quali in libera uscita. Non c'e' da impressionarsi se vedi un ragazzino di 18 anni appena con un kalashnikov in mano. Molti ragazzi e ragazze disertano il servizio militare e si fanno qualche settimana di carcere. Altri, entrano nel servizio di leva e scappano poco dopo, come due bellissime ragazze di origine araba che ho conosciuto, amiche di Amnon. Se ribeccate, le mandano in galera, ma escono subito dopo perche' spesso capita che non ci siano celle libere. Figuriamoci.

Gli ebrei in Israele sono per lo piu' giovani discendenti di antiche famiglie ebree provenienti dalla Russia o est europeo; poi ci sono quelle che vengono dall'ovest europeo, dal nord Africa, dal mondo arabo e persino dall'Etiopia. Molta la gente di colore, ebrea intendo. Ci sono i giovani scoppiati ebrei solo per sentito dire, poi ci sono quelli piu' radicali ed ortodossi, ovvero quelli col cappellone nero, barba e treccioline dalle tempie, camicia bianca, giacca nera e laccetti all'altezza del pancione. I giovani ebrei li chiamano "pinguini" e non simpatizzano troppo con loro, dicono che sono troppo estremisti e non si godono la vita. Infatti non vanno per bar o feste, fanno il bagno in mare vestiti e le donne portano lunghe gonne e capelli legati. A Gerusalemme e' pieno di questi "pinguini", ma a Tel Aviv sono merce rara. "A Gerusalemme si prega, a Tel Aviv ci si diverte" recita un motto.

Sunday, August 30, 2009

Diario di viaggio (XIV): "Essere femmina costa la meta' ma l'altra meta' ce la rimetti in...". Benvenuti a Tel Aviv

Entrare a Tel Aviv dopo un mese di strada tra deserti, cammelli, donne col velo, soldati armati, check point e cultura araba e', per usare un leggerissimo eufemismo, scioccante. Tel Aviv e' la citta' piu' grande e piu' ricca dello stato di Israele, sulla costa mediterranea. E' un misto di Miami, Barcellona e Berlino, nel senso che e' piena di grattacieli, spiagge da urlo e popolazione quasi esclusivamente giovane. Non abbiam visto o conosciuto ebrei o sionisti durante il nostro percorso tra Egitto, Giordania e Palestina, fatta eccezione per la citta' di Gerusalemme. Abituati ad un'accoglienza calorosa e un clima di fratellanza tra le genti arabe conosciute finora, l'impatto con Gerusalemme ovest prima e Tel Aviv poi e' stato terribile. "Giuro che il primo tatuaggio che faro' sara' una svastica" direbbe qualcuno. Gli israeliani che imbecchiamo nel tragitto tra Gerusalemme e Tel Aviv sono giovani stronzi, ebrei di Francia, Stati Uniti o Russia che vengono a passare l'estate sulle spiagge della ricca Tel Aviv. I centri commerciali e le stazioni degli autobus ti accolgono sempre con un militare in divisa e un metal detector. Una rottura di palle impressionante, non capiamo come faccia la gente a vivere in una gabbia del genere. E lo fanno per sentirsi sicuri. Inoltre Tel Aviv e' carissima, tre o quattro volte piu' della Palestina. Palestina che ci manca tantissimo. In Israele "tranquillo" e' morto kamikaze.

A Tel Aviv abbiamo in teoria due contatti: Uri, ragazzo israeliano di origine ungherese che Fabio ha ospitato tempo fa a Berlino, e Reven, un'attivista di Anarchist Against the Wall. Sfortunatamente nessuno dei due risponde al cellulare, cosi', stanchi e massacrati dal caldo bollente, buttiamo gli zaini in spiaggia e i nostri corpi in mare. Dopo giorni di strada, un bagno ci voleva proprio. Le ore passano e arriva la notte. Oramai in spiaggia ci siamo solo noi e i nostri zaini. Si avvicina un tizio, il primo israeliano simpatico che conosciamo. Ex soldato (come tutti e come tutte, il servizio militare e' obbligatorio, tre anni per i ragazzi, due per le ragazze. Non commento che e' meglio), lavora in un negozio vicino Tel Aviv, sposato con tre figli. Parliamo di politica. Non e' un sionista assassino, anzi anche troppo tollerante e liberale. Dice che ora in Israele si vive una finta pace, che prima o poi sfocera' in guerra di nuovo. Non ha una buona considerazione degli arabi (che qui a Tel Aviv e dintorni vivono con gli ebrei, ma sono la netta minoranza) e dice che non si sopportano neanche tra di loro, secondo lui alcuni palestinesi vorrebbero la sovranita' di Israele in tutti i territori e la condanna delle fazioni piu' radicali di palestinesi (tipo Hamas o l'ala piu' intransigente di Fatah). Al tempo stesso odia l'esercito e le spese militari. Ci parla dei numerosi attentati nei bus e nei locali di Tel Aviv degli anni scorsi, l'ultimo l'anno scorso. In uno di questi attentati ha perso lo zio. La sua idea di pace e liberta' e' l'assenza di frontiere. Concordiamo in pieno. Il tipo se ne va, noi allunghiamo i sacchi a pelo.

Consigli per sopravvivere ad una notte in spiaggia a Tel Aviv: 1) durante il giorno e specie la notte il cielo e' un continuo via vai di aerei militari ed elicotteri, bisogna farci l'abitudine 2) al tramonto uno squadrone di ratti invade le spiagge per mangiare gli avanzi dei turisti e bagnanti, bisogna stare con gli occhi aperti 3) verso mezzanotte ragazzini molto probabilmente arabi vengono a fottere negli zaini dei malcapitati, meglio infilarsi nelle mutande tutti gli oggetti preziosi, tipo passaporto e macchina fotografica 4) all'alba una mega ruspa (il mostro finale) passa a pulire e spianare la spiaggia, bisogna farsi notare onde evitare di venire schiacciati. A noi e' andata bene.
Il giorno dopo il cellulare di Uri e Reven squillano ancora a vuoto. Semi disperati, continuiamo a poltronare in spiaggia. Un tipo cinquantenne che guida una moto d'acqua si avvicina a Chiara. Si chiama Amnon e sara' la nostra svolta. Si dimostra molto gentile e ci invita a stare a casa sua piuttosto che barboneggiare in spiaggia. Why not!?

Amnon e' un ricco uomo d'affari dalla storia interessante. Ha vissuto tutta la vita in una specie di kibbutz, allevando cavalli. Cinque anni fa ha perso la moglie in un'incidente d'auto e da allora la sua vita e' cambiata, si e' trasferito a Tel Aviv e vive affittando e vendendo appartamenti e palazzi ai miliardari. Sebbene abbia cinquant'anni, ha un fisico invidiabile per un ventenne. E un notevole giro di ragazzine (maggiorenni spero) con le quali se la spassa alla grande. Ci ospita nel suo mini appartamento con due mega televisori e aria condizionata. Ci paga la cena e tutto il resto, un vero signore con noi. Dal secondo giorno capiamo pero' il vero (ed evidente a priori) motivo di tanta gentilezza: Chiara. Purtroppo per lui l'affare va in fumo, ma invece di ributtarci in strada ci offre una stanza in un palazzone dove affitta a immigrati e prostitute. Il prezzo dell'affitto per loro e' davvero alto, Amnon si rivela un vero sfruttatore, maestro di speculazione edilizia, ma a noi non chiede una lira. Invece di sputare nel piatto da dove mangiamo, accettiamo la piccola stanza tra mignotte russe e operai africani. Amnon ci lascia le chiavi e scompare.

I quindici chilometri di spiagge a Tel Aviv fanno invidia a quelle di Miami e Rio de Janeiro. Da un lato alto edifici, grattacieli e hotel cinque stelle, dall'altro onde per i surfisti e insenature di sabbia per far giocare i bambini. Molte le spiagge libere, le fontane con acqua potabile e i punti d'ombra per i bagnanti squattrinati. Per il resto ombrelloni per i ricchi signori da ogni parte del mondo (in gran parte ebrei, da quanto ho capito) e un esercito di ragazzi e ragazze tra i quindici e i trent'anni, occhiali da sole e costume ultima generazione, birretta in una mano, narghile' nell'altra, tatuaggi di caratteri cinesi e muscoli pompatissimi, una vera sagra dei fighetti e una marea di ragazzine da farle sbranare in via Condotti a Roma.
Dopo un mese di donne col velo e proteste anti occupazione israeliana, non ci aspettavamo certo uno spettacolo del genere. E passiamo le giornate in spiaggia ad ustionarci e osservare la tamarraggine telaviviana.

Saturday, August 29, 2009

Diario di viaggio (XIII): le notti magiche di Gerusalemme e il Ramadan

Gerusalemme Gerusalemme, antichissima e magnifica citta' che racchiude in se' diverse culture e religioni, mantiene a tutt'oggi il fascino di sempre. La punta di diamante e' il suo centro, ovvero la Old City, dove sono presenti la moschea di Aqsa (quella col cupolone dorato), il Muro del Pianto (quello con gli ebrei ortodossi che sbattono la testa contro il muro), il Santo Sepolcro (quello dove sembra sia morto e risorto quel giovane ribelle di nome Gesu'), i quartieri ebraico, armeno, greco e non ricordo cos'altro. Pieno di chiese, chiesette, bazar, turisti. Turisti che vengono soprattutto in pellegrinaggio. Notevole il business e le chiese che vomitano soldi di turisti russi, polacchi, italiani, coreani. Alcuni fedeli si caricano una croce di legno e si fanno a piedi il percorso fatto un paio di migliaia di anni fa da Gesu'. Non commento.

Visitate le varie bellezze della citta', la sera ci sediamo in una piazzetta a giocherellare con le palline, aspettando la mattina mentre Chiara si fa offrire caffe' e kebab da un barista li' vicino. Si avvicina un ragazzo di Modena, fa volontariato in Palestina con un'associazione che Chiara ha ribattezzato "Cialtroni Senza Frontiere". Restiamo a chiacchierare col tipo fino a tardi, poi ci consiglia di visitare di nuovo il Santo Sepolcro a mezzanotte. Caricati gli zaini, entriamo di nuovo nella chiesa del Santo Sepolcro. E' vuota di turisti, ma ci sono moltissimi sacerdoti e preti ortodossi, nonche' fedeli russi, armeni, greci. Stanno per preparare la funzione. Fortissimo l'odore di cera e di fumo di incenso. Aperte le nicchie sotterranee, anziane donne vestite di nero rendono l'atmosfera (gia' assurda di per se') da film di Dario Argento. Chiara decide di dormire in chiesa, io e Fabio andiamo a cercare un posto dove passare la notte: un tetto accanto ad un mini parco giochi nella Old City. Il giorno dopo si ritorna a Betlemme, e' iniziato il Ramadan.

Passiamo altri due giorni a Betlemme, sempre dalla famiglia di Amer, che ci ha anche preparato due materassini dove passare le notti, in terrazzo. Ne approfittiamo anche per andare a fare un bagno nel Mar Morto, ad est di Betlemme. Il Mar Morto si chiama cosi' perche' non credo ci sia vita: c'e' una percentuale di sale inimmaginabile nell'acqua, praticamente non si riesce a nuotare, ma solo a galleggiare. Se immergi la testa in acqua i tuoi occhi bestemmieranno per diverse ore. E anche le labbra. Le rocce sono piene di sale e puoi leggere il giornale sdraiato sull'acqua. Posto incredibile davvero.
Per il resto, abbiamo condiviso il Ramadan con Amer e famiglia. Il Ramadan e' il mese del calendario lunare arabo durante il quale ci si astiene dall'alba al tramonto da 1) cibo 2) bevande 3) sesso 4) sigarette 5) divertimenti vari. La sera verso le sei tutti sono stressatissimi e pallidi in volto, non vedono l'ora di bere e mangiare. Non tutti rispettano il Ramadan, tipo i bambini e i malati. E i tabagisti, come il fratello di Amer. Basta non farsi vedere in strada con una sigaretta o un kebab in mano. Il primo giorno di Ramadan e' festa grande, tipo Natale in Italia. Si fa una grande cena con tutta la famiglia (che qui significa avere trenta persone sotto lo stesso tetto), ci si abbuffa di riso, carne di pollo, yogurt e tanta frutta, poi si beve caffe' e si fuma narghile', infine ci si raduna in strada e nelle piazze per una grande preghiera comune. Bellissimo spettacolo.
I due giorni volano e noi dobbiamo riprendere la strada verso Gerusalemme e Tel Aviv. Il momento degli "addii" non e' mai piacevole: scambio di indirizzi e regali, baci, abbracci e qualche lacrima. La famiglia di Amer ci ha fatto veramente sentire a casa e non e' stato facile lasciarli. Chissa' se le nostre strade si incontreranno di nuovo, chissa' se tra un anno saranno ancora li' o l'esercito israeliano verra' e li portera' via... Chissa'. Ancora quel fastidioso senso di ingiustizia ed impotenza.
Poco da dire, poco da fare. Zaini in spalla, bus fino al check point del muro, ennesima volta tra i metal detector e i controlli delle giovani soldatesse israeliane, poi di nuovo la strada fino a Gerusalemme e da li' il pullman fino a Tel Aviv. Capitale economica di Israele.

Saturday, August 22, 2009

Diario di viaggio (XII): ritorno a Gerusalemme e la protesta a Bilin


Passiamo ancora una notte a Betlemme e una giornata con la ormai troppa amica famiglia di Amer. Tra uva, fichi, dolcetti alla cioccolata, te' alla menta e alla salvia, caffe' e narghile', a casa di Amer ci sentiamo a casa nostra e passiamo piacevolissime ore con tutta la baraonda di bambini a disegnare e ballare, poi con i meno giovani della famiglia a parlare di politica e cultura. La nipote di Amer ci fa anche visitare il suo liceo, dove la preside della scuola ci offre te' e cioccolata e ci racconta della scuola in questione. Prima di lasciare Betlemme la famiglia ci invita a tornare per passare con loro le prime due serate di Ramadan, cena e feste. Riusciremo mai a lasciare questa cavolo di Betlemme?!?!


Intanto prendiamo il bus per Gerusalemme. Passiamo la notte dalle famiglie sfrattate che vivono ancora per strada nel quartiere di Sheik Jarrah. Ci sono meno persone e anche meno attivisti internazionali. Ma vedo che il ragazzo arrestato alla manifestazione di qualche giorno e' stato rilasciato e ribecco anche Ivy, la bellissima norvegese. Le famiglie invitano tutti ad un grande banchetto, poi la serata continua con discussioni di politica tra i giovani di vari paesi (anche israeliani). In particolare con una ragazza Ceka, che e' arrivata mesi fa in Palestina, si e' innamorata di un palestinese e vive per strada con la famiglia sfrattata da tre settimane, visto scaduto e soldi finiti; poi uno studente cipriota di nome Cris e infine una marxista palestinese che vive in Israele. Chiara conosce un ragazzo israeliano e viene a sapere per caso che e' il fratello di un suo ex. Piccolo il mondo. Grande Allah e grande l'ulivo sotto al quale, stesi i materassi e le coperte, passiamo la notte in una decina di persone.

Il giorno dopo Ivy e Cris (attivisti di International Solidarity Movement) ci invitano alla manifestazione contro l'occupazione che si organizza ogni venerdi'; loro andranno a quella di Bilin, villaggio a nord di Ramallah, tra monti di pietra e asini, dove la lotta e' piu' acuta, la gente piu' imbestialita e la parola"pacifismo" non molto di moda. Fabio e io seguiamo Ivy e Cris in bus, prima a Ramallah, poi a Bilin. Il villaggio e' piccolo e nel centro di International Solidarity Movement incontro una ventina di attivisti da ogni parte del mondo. Anche una tipa tedesca, amica a Berlino di Fabio. Piccolo davvero il mondo. Dopo poco inizia la protesta: tutti in strada, un centinaio di persone di cui la meta' palestinesi, moltissimi giornalisti e free lancer (con maschera anti-gas), un ragazzo down e due in carrozzina (ragazzi palestinesi di Bilin), cori e slogan in marcia verso le barriere di filo spinato che tagliano la campagna di ulivi. Arrivati vicino al check point dove dietro sono nascosti i soldati israeliani, un gruppetto di ragazzini si rifugia tra gli ulivi e comincia a lanciare pietre con la fionda, il resto dei manifestanti si copre il volto, prepara macchine fotografiche e limoni (contro i gas lacrimogeni). Io e Fabio abbiamo si' e no mutande e ciabatte. Per terra ci sono bossoli di lacrimogeni e un puzzo tremendo di bruciato. E la tomba di un ragazzo palestinese ucciso dai fucili israeliani lo scorso aprile. Arrivati al muro di ferro e filospinato diversi ragazzi e donne palestinesi attaccano cori e sbandierano i colori della Palestina, altri a volto coperto provano a tagliare il fil di ferro. Degenera subito: i soldati israeliani sparano diversi gas lacrimogeni poco sopra a noi, il vento fa il resto. Corron via tutti, tranne i giornalisti con le mashere a gas. Dopo i consueti due minuti di lacrime, sputi, volto rosso, sensazione di soffocamento e malore, il peggio e' passato e torniamo di fronte al muro di ferro. I ragazzini continuano, da veri professionisti, ad armeggiare le fionde contro i soldati israeliani al di la' del filo spinato. Un anziano signore aiuta i manifestanti colpiti da gas lacrimogeni e urticanti con limone e acqua. Ho perso Fabio, che nello scappare tra i campi di rovi e ulivi si e' perso ciabatte e occhiali da sole. Partono sassi anche da dove sono io, ma la dimostrazione e' gia' terminata e i palestinesi invitano a tornare a casa. Un asino con su scritto "Ariel Sharon" e' l'ultima immagine di questa manifestazione che non ho troppo gradito. Sembravano esserci piu' fotografi e coglioni in posa che gente a manifestare il proprio dissenso. I soldati israeliani non li ho neanche visti, ho solo mangiato i loro fetosi gas lacrimogeni. Sotto il sole bastardo delle due di pomeriggio incontro per strada Fabio con i piedi tutti feriti: fermiamo una macchina e ci rincontriamo tutti al centro di International Solidarity Movement per riposarci e avere acqua fredda gratis. Mi raccontano che lo scorso venerdi' (foto dal sito di Anarchists Against the Wall) c'erano piu' manifestanti, piu' lacrimogeni e piu' casino fino a tardi. La maggior parte di questi attivisti resta a Bilin, io con altri torno in bus verso Ramallah e poi verso Gerusalemme, tanto per fare due passi nel bellissimo centro storico della citta'. La sera ancora con le famiglie in strada, ma oramai comincia il Ramadan e han deciso di sbaraccare e non lasciar piu' dormire gente sui marciapiedi. Una free lancer francese ci consiglia di spedire tutte le foto e il materiale filo paestinese per posta prima di metter piede nell'aeroporto di Tel Aviv, onde evitare guai con le guardie israeliane. Passiamo l'ultima notte sui materassi di Sheik Jarrah, ormai gli internazionali a dormire li' si contano sulle dita della mano, piu' che barboni che altro...

Diario di viaggio (XI): lezioni di marxismo e la comunita' di giovani scoppiati italiani

Beit Sahour, vivace villaggio alle porte di Betlemme. Neanche a farlo apposta, becco per strada Chiara e Fabio, tutti alla ricerca del centro culturale Alternative Information Center, che non tardiamo a trovare. Con nostra grande sorpresa scopriamo che vi lavorano quattro giovani italiani, tutti li' con il Servizio Civile Nazionale all'Estero. Il direttore del centro, il professore Ibrahim Nasser, e' un intellettuale marxista musulmano, giornalista e scrittore, sposato con un'iraniana. Presenta l'associazione facendo una delle analisi sulla questione palestinese piu' brillanti che abbia mai ascoltato. Ma troppo accademica e di sinistra. Dubito persone come lui abbiano molto seguito tra la popolazione civile palestinese. Subito dopo una ragazza di Milano presenta in inglese una relazione di geo-politica sulle ultime occupazioni da parte del governo israeliano delle terre tra Gerusalemme e Betlemme. Numerosi i presenti, quasi tutti giovani statunitensi, spagnoli, italiani ed irlandesi. La Palestina e' piena di ragazzi dai "territori occupati" di Nord Irlanda, Scozia, Catalogna, Paesi Bassi, tutti qui per attivismo e solidarieta' su situazioni politiche che conoscono benissimo gia' da casa. Incontro una antropologa argentina che lavora nei campi profughi. Il centro ha una libreria e un bar dopo piovono fiumi di birra per musulmani e non. Terminata la serata gli italiani che lavorano nel centro ci invitano in un altro bar dove incontriamo la vasta comunita' di giovani italiani di Bet Sahour, tutti volontari impegnato nel campo politico, artistico e culturale. Non ci sembra piu' di essere in Palestina ma in un centro sociale a Bologna. La fortuna ci assiste ancora e passiamo la notte sui divani a casa di tre gentilissime ragazze italiane. Piu' creste, meno cristi!

Tuesday, August 18, 2009

Diario di viaggio (X): Protesta a Gerusalemme est, ovvero "Peace is not the absence of conflict, it is the presence of justice".

Con Gaurav, Ingird e William lascio il villaggio di Beit Ommar, direzione Gerusalemme Est. Dopo poco siamo a Betlemme (che dista dieci chilometri da Gerusalemme) e dopo vari check point, controllo zaini e passaporti, eccoci a Gerusalemme Est. Citta' pulita, divisa in due solo teoricamente, visto che ebrei e arabi vivono insieme dappertutto. Ci fermiamo in un ristorantino palestinese a discutere di nazionalismo e stato-nazione. Tramite Israeli Committe Against House Demolitions (ICAHD), Gush Shalom (un'organizzazione pacifista israeliana con sede a Tel Aviv) e Gaurav ero venuto a sapere di questa manifestazione contro lo sfratto di alcune famiglie palestinesi a Gerusalemme Est. L'esercito israeliano e' piombato a casa di queste famiglie alle cinque di mattina, ha cacciato via i palestinesi e sequestrato i loro beni (in un magazzino del governo, a pagamento), mezz'ora dopo sono arrivati i coloni israeliani ad occupare lo stabile, coloni di quelli piu' radicali e ortodossi possibile, sionisti alla follia. Le famiglie palestinesi (con molti bambini, donne e anziani) sono accampati da settimane fuori dalle loro (ex) case, han portato la causa in tribunale e sono in attesa di risposte, nel frattempo media e attivisti si sono organizzati con materassi, coperte, sedie, te', caffe', narghile', manifestazioni e presidi. Raggiungiamo le case occupate verso le sei di pomeriggio, non lontano dalla Citta' Vecchia di Gerusalemme. Vediamo le famiglie per strada, lasciamo gli zaini e andiamo verso la manifestazione, poche centinaia di metri piu' su, tra hotel di lusso e soldati armati. La manifestazione e' fuori da un hotel nel cui interno famiglie di ebrei e leader sionisti brindano e festeggiano. Fuori diversi militari col mitra, manifestanti con cartelloni e slogans in ebraico: sono soprattutto oppositori politici e pacifisti israeliani. Pochi i palestinesi. Molti gli internazionali, alcuni comunisti israeliani e qualche punk. Il gruppo piu' rumoroso e' quello di un'organizzazione filo palestinese di franco-algerini: sono soprattutte ragazze di origine araba, col volto coperto per non farsi riconoscere ed essere schedate, tra esse spicca attivissima una bellissima ragazza di Bordeaux; la chiameremo la Pantera. Tra i soldati, il piu' su di giri e' un capitano sui quarant'anni, senza mitra e in maniche di camicia: lo chiameremo il Guerriero, spinge i manifestanti e da' ordini a tutti. Dall'altra parte dell'entrata all'hotel ci sono degli attivisti sionisti, con bandiere israeliane, giovani ebrei con tipici pantaloni neri, camicia bianca e giacca, barba e ricciolini che vengono giu' dalle tempie sotto un largo cappello nero. Sono figli di un dio che ha dato loro questa terra. Cosi' han deciso. La manifestazione e' molto rumorosa ma non violenta. Insulti da tutte le parti, slogan in ebraico, arabo, inglese, francese: "sionista fascista, sei tu il terrorista" spicca su i vari "tornatevene a casa", "stop insediamenti", "pace subito" e vari in lingua ebraica che non capisco. Molti i giornalisti ed attivisti di varie organizzazioni, tra cui la solita International Solidarity Movement. Troviamo anche Alexa, la tipa canadese che era a casa di Mousa. Conosciamo un'antropologa norvegese, Ivy (una delle cose piu' belle che abbia mai visto), che ha un blog da cui potete vedere alcune foto e una studentessa di Praga, Teresa, grande teorica di scienze politiche e pacifismo; decidono entrambe di aggregarsi al nostro gruppetto di disorganizzati attivi. La manifestazione termina di li' a poco, i leaders lasciano scortati l'hotel, i dimostranti delle due fazioni fanno ritorno a casa, spinti dalla polizia e con insulti e provocazioni varie. Nel gruppetto di ebrei ultra ortodossi spiccano due tizi in particolare : un tizio rosso con la bandiera di Israele (che chiameremo Pel di Carota) e un altro basso, brutto, con gli occhiali (che chiameremo l'Idiota).
Il peggio e il peggissimo devono ancora arrivare, puntualissimi.

Sulla strada del ritorno verso le famiglie accampate per strada, ci si presenta una strana tipa, vestita da freakkettona, tutta sporca, con un grande mantello ed una chitarra. Ci chiede della manifestazione e da che parte stiamo: Gaurav si ferma a parlare con lei, Ivy e William riprendono la scena con delle piccole telecamere. La tipa e' un'ebrea ultra ortodossa completamente pazza, occhi da folle, ci dice che questa e' terra sua, un regalo di dio e che noi e i bastardi arabi ce ne dobbiamo andare. Tutto bene finche' la tipa non impazzisce del tutto, cerca di prendere la telecamera di William, morde Ingrid, colpisce Ivy. Intervengo anche io, le blocco le mano e le guardo la bocca sporca di sangue, questa tipa e' una furia, gli altri sono gia' piu' sotto, cerco di spiegarle che siamo in pace e ce ne vogliamo andare in pace, la tipa non molla, vuole la telecamera di William, mi graffia le braccia e cerca di spezzarmi il mignolo, inutilmente. Arriva anche il gruppo di franco-algerini, la tipa non mi molla e io non mollo lei finche' non mi sento bloccare alle spalle: e' arrivata anche la polizia. Il poliziotto non mi molla, non avevo alcuna intenzione di passare la notte in caserma, poi per fortuna la pazza ebrea aggredisce anche i poliziotti e tutti noi internazionali tagliamo la corda. Folle ebrea figlia 'un dio
piu' folle di lei. Ivy mettera', appena possibile, il video di questa scena nel suo blog.

Tornati dalle famiglie sfrattate, raccontiamo l'accaduto agli altri attivisti e giornalisti. Siamo una cinquantina di persone. Conosco un free lancer basco e un gionalista di Singapore che parla cinese e che scrive qui. Ci accampiamo anche noi, per rilassarci e organizzarci per la notte, che abbiam deciso di passare in strada sui materassi con le famiglie cacciate di casa. Ho in mente ancora gli occhi della pazza di prima, quand'ecco che fanno ritorno alle case occupate i coloni ebrei. Una ventina di persone, con barba, ricciolini e cappelli neri. In prima fila Pel di Carota e l'Idiota. Scoppia subito il caos: una strada larga qualche metro, da una parte i sionisti, dall'altra famiglie sfrattate, palestinesi, attivisti e giornalisti. Pioggia di insulti. Che fortunatamente non degenera in lancio di sassi o molotov. Cori e slogans, sfotto' e provocazioni per una ventina di minuti, poi arriva l'esercito. Capitanato dal nostro caro Guerriero. Dopo pochi minuti arrestano e portano via (decisamente in malo modo) Pel di Carota. Solo un ebreo si oppone: arrestato anche lui. Applausi e urla dalla parte palestinesi, sempre capitanata dalla Pantera. Poteva benissimo finire cosi'. A me non e' piaciuto l'arresto di Pel di Carota, non capisco cosa abbia fatto che gli altri (da entrambi i lati) non abbiano fatto. In questo delirio di grida e insulti, slogans e foto, mi sento come immobilizzato, non ho davvero idea di cosa stia succedendo, lo stesso capita agli altri internazionali, diverso e' invece l'atteggiamento di ebrei e palestinesi, che sembrano partecipare ad un rito quotidiano. Improvvisamente l'Idiota mima gesti di assassino e sterminio in direzione dei palestinesi; una ragazzina della famiglia sfrattata urla qualcosa contro il Guerriero e scappa dietro la folla dei filo palestinesi. Il Guerriero si lancia assatanato, da solo e disarmato, verso la ragazzina, ma trova la folla a proteggerla, in particolare un robusto ragazzo palestinese. Volano schiaffi, i due si azzuffano tra materassi e persone, intervengono altri soldati, la folla cerca di proteggere il palestinese, si crea una pila umana cui sopra spiccano i flash dei fotografi e le telecamere. Una baraonda caotica nella quale resto ancora immobile ed incredulo ad osservare. Poco dopo anche il palestinese, livido in volto, e' arrestato tra i pianti e le urla delle donne. Due arrestati ad uno per gli ebrei. Ebrei che nel frattempo sono scappati, rintanati in casa. Ma non e' ancora finita. La Pantera guida la folla di filo palestinesi in una via sotto, vari spintoni tra soldati e palestinesi, il Guerriero non sa piu' dove sbattere la testa. Mi aspetto che un proiettile, una bomba o una molotov esploda da qualche parte. Sbuca dal nulla l'Idiota, rincorso e insultato (ma non pestato) da alcuni ragazzi palestinesi, l'Idiota inciampa e cade, una fragorosa risata rompe la tensione. Alcuni anziani palestinesi e l'esercito invita tutti a tornare a casa. Alcune donne palestinesi inscenano un teatrino di pianti, a cui partecipano anche le ragazze franco-algerine, la Pantera in primis. Pian piano se ne vanno tutti, restano solo le famiglie per strada e alcuni attivisti. La Pantera mi racconta varie storie, che non capisco del tutto, parla solo francese. Gli attivisti franco-algerini se ne vanno, salutandoci col simbolo della vittoria. Io con Ingrid, Gaurav, Teresa ed Ivy mi sistemo sui materassi, le famiglie palestinesi ci offrono pere, acqua e caffe', ringraziandoci per la presenza. Con i pochi attivisti e giornalisti rimasti scambiamo impressioni e indirizzi, rivediamo le immagini della giornata, parliamo di stato, proprieta', pacifismo, futuro. La stanchezza e il sonno ci assalgono verso mezzanotte, sotto un cielo stellato e un grande ulivo, col vento che fischia forte, tra aspirine e coperte spendiamo una notte tutt'altro che tranquilla, tra sirene della polizia e il terrore che qualche pazzo ebreo possa tirarci molotov e quant'altro dalla "sua" casa occupata, a meno di quindici metri dai nostri materassi. Ho la testa che scoppia di emozioni differenti, ma la stanchezza la vince su tutto.

La domanda e' "fino a quando tutto questo?!" e credo che nella testa di queste persone la risposta l'abbia gia' data un rivoluzionario argentino una cinquantina d'anni fa: "Fino alla vittoria!".

La mattina dopo ci svegliamo tra macchine delle Nazioni Unite e pullman di turisti. Ingrid, Gaurav, Ivy e Teresa di dirigono verso la stazione dei pullman e da li' verso i posti delle nuove proteste: Nablus e Saffa. Saluti ed abbracci, io resto ancora un po' sui materassi, poi la mia strada procede verso un villaggio vicino Betlemme dove stasera c'e' una conferenza dal titolo "Between Political Statements and Reality on the Ground - Eighteen Months to the Annapolis Conference", conto di ribeccarmi con Chiara e Fabio li'.
Sono a pezzi.

Diario di viaggio (IX): Hebron, ovvero come ci si sente nel cuore dell'olocausto, nel centro dell'assurdo

"Il quinto dice non devi ammazzare"

La mattina del 15 agosto scrocchiamo un passaggio in pulmino ai ragazzi catalani, da Betlemme ad Hebron, mezz'ora di strada piu' a sud, dove ci lasciamo. Tramite Couch Surfing (un network di persone da tutto il mondo che cercano od offrono ospitalita', in culo alla speculazione alberghiera) conosco e trovo ospitalita' da un certo Mousa. Lo chiamo al cellulare, dice di vivere in un villaggio fuori Hebron e mi da' il numero di cellulare di Nowal, una attivista palestinese che ha il negozio nel Citta' Vecchia di Hebron. Chiamo la tipa e poco dopo, tra traffico e mercati e bancarelle e soldati armati, eccoci al suo negozio. Ci offre del te' ed invita a fare un giro per il centro della citta'. La situazione qui e' molto piu' tesa rispetto a Betlemme, la citta' ha cento trenta mila abitanti, arabi ed ebrei vivono insieme. Ma divisi. Questo perche' una quarantina di anni fa un gruppo di ebrei si e' finto turista ed ha occupato delle palazzine nel centro, rivendicandole. Nel 1994 uno di questi ebrei e' entrato armato nella moschea: una strage. Oggi la citta' e' divisa in due, gli ebrei sono circa 500, di cui la meta' soldati. L'atmosfera e' tesissima. Una famiglia palestinese ci invita a salire sul loro tetto, da dove e' visibile l'insediamento israeliano. Said, un ragazzino di sedici anni circa, mi spiega diverse cose, ci mostra la sua casa tagliata a meta' dall'insediamento, i soldati israeliani armati a cinque metri dal suo tetto, le taniche d'acque con fori di proiettile, la foto del fratellino ucciso carbonizzato da una molotov lanciata da un colono israeliano. Restiamo senza parole. Sul tetto c'e' anche un gruppo di altri stranieri, italiani, baschi, turchi, argentini. La moschea e' super vigilata dai soldati e dai metal detector: non ho voglia di entrare. Nella citta' girano degli osservatori internazionali di Human Right Watching: ne conosciamo uno, di Napoli. Tira davvero brutta aria ad Hebron, torniamo al negozio di Nowal, telefoniamo a Mousa che ci invita a casa sua, dove ci sono altri attivisti stranieri. Il villaggio si chiama Beit Ommar, dieci minuti di pulmino da Hebron, piena campagna. Appena arrivati nel villaggio osserviamo una zuffa tra palestinesi per futili motivi di traffico. Tanto per cambiare, volano pietre e donne che urlano. Appena la gente ci vede ci chiede se andiamo da Mousa e ci indica la strada. Passa un taxi, scende un tipo robusto che dice di essere il fratello di Mousa e ci invita a salire. Poco dopo, eccoci alla casa di Mousa, dove diversi ragazzi di varie nazionalita' ci danno il benvenuto. Sono William, un socialista indipendista dal Quebec; Alexa, studentessa canadese di origine italiana; Gaurav, ventisettenne indiano che fa un master a New York, tipo molto in gamba, e' stato in Palestina due mesi, parlicchia arabo ed e' informatissimo sulla situazione e le varie attivita'; Ingrid, studentessa tedesca; Yussef, fratello di Mousa; Bekha, americana di origine ebrea, moglie di Mousa; i genitori e la famiglia allargatissima di Mousa; un tipo americano che se ne andra' praticamente subito e un altro tipo americano di Chicago di origine ebrea. Una bella squadra insomma. Sono quasi tutti per un progetto ideato anni fa da Mousa e Bekha, Palestine Solidarity Project. Simile al piu' famoso International Solidarity Movement (di cui sia Mousa che Bekha erano attivisti), accoglie ed organizza attivisti palestinesi ed internazionali, per prendere parte a forme di protesta e resistenza non violenta contro l'occupazione e in sostegno dei contadini e civili palestinesi. Mousa e' uscito di galera due mesi fa. Nel villaggio vivono quasi solo contadini alle prese ogni giorno con il governo israeliano che taglia loro l'acqua e impedisce di raggiungere i campi che lavorano. Sono appena tornati da una manifestazione a Saffa, dove due attiviste straniere sono state arrestate dall'esercito israeliano.
La casa e' piena di libri, la televisione e' sempre connessa su AlJazeera, i campi pieni di frutta ed ortaggi, l'ambiente fantastico. Decidiamo di restare due notti, durante le quali parliamo di situazione palestinese, strategie di lotta, relativi progetti, politica internazionale, esperienze personali. Presento l'Italia di mafia e Berlusconi, puttane d'alto bordo e fascismo dei media. Non ne sapevano nulla. Passiamo la maggior parte del tempo a leggere. A proposito di questo, consiglio alcuni libri che mi son stati di compagnia negli ultimi giorni: "Anarchy in the Age of Dinosaurs", "Making Gender. The Politics and Erotics of Culture", "La Santa Casta della Chiesa", "Le pratiche dell'inchiesta sociale" e il bellissimo "Las venas abiertas de America Latina". La casa e' anche piena di libretti di informazione sulla cultura araba, le maniere e le abitudini di vita, come partecipare alle manifestazioni, quali sono i pericoli, cosa fare se si viene arrestati, storia e reports sulla condizione attuale della Palestina. "Il coraggio e' contagioso", "If I can't dance to it, it's not my revolution", "We support our troops when they shoot their officers" alcune delle frasi che leggo in giro. Mousa e Bekha ci parlano moltissimo di Palestina, di attivismo e del loro progetto. Bekha, da ebrea che ha sposato un palestinese, e' considerata dai soldati israeliani una "puttana traditrice". Mangiamo insieme e la sera dormiamo divisi maschi e femmine in due stanzoni. Alexa parte per una manifestazione a Gerusalemme, Ingrid e Gaurav per un film-documentario in un villaggio li' vicino. Il terzo giorno Fabio e il tipo americano di Chicago tornano ad Hebron per fare delle foto, Chiara decide di restare a casa di Mousa per un altro giorno a leggere e documentarsi, io con Ingrid, Gaurav e William ce ne andiamo a Gerusalemme est (la parte palestinese della citta') in pulmino, per partecipare ad una protesta contro lo sfratto di alcune famiglie palestinesi e l'insediamento di nuovi coloni israeliani.
Pensavo di assistere ad una manifestazione come tante altre, ma le poche ore di Gerusalemme mi hanno lasciato allibito non poco...

Friday, August 14, 2009

Diario di viaggio (VIII): Manifestazione pacifica contro l'occupazione militare israeliana a Al Masada.

Venerdi' e' il giorno sacro ai musulmani. La domenica dei cristiani, il sabato degli ebrei. Dal 2006 ogni venerdi' in Palestina si organizzano varie manifestazioni non violente nei territori occupati o a ridosso del muro, in ogni caso di fronte ai soldati israeliani. Vi prendono parti i civili palestinesi, gli attivisti, varie organizzazioni, giornalisti e simpatizzanti da ogni parte del mondo. La manifestazione di oggi e' cominciata alle due di pomeriggio, nel villaggio di Al Masada, a sud di Betlemme. Al corteo di civili, con molti bambini, kefie e bandiere della Palestina, si sono uniti fotografi e giornalisti (ne ho conosciuti almeno quattro italiani), il gruppo catalano di Holy Land Trust, vari attivisti e gli Anarchici Contro il Muro (Anarchists Against the Wall, un gruppo di attivisti israeliani che avevamo gia' contattato e cui ci appoggeremo a una volta a Tel Aviv, dove hanno la sede, uno squat). Quelli (anzi, "quelle", visto che erano tutte ragazze) di AATW erano armati di fischietti, tamburi e altri strumenti di percussione, che han suonato assieme ad altri bambini del luogo durante tutta la dimostrazione. Essendo loro israeliane ho chiesto ad una di loro cosa pensa, secondo lei, un soldato israeliano nel vedere comunita' internazionali solidarizzare con la popolazione palestinese contro l'occupazione. Risposta: "Secondo me un soldato non pensa: e' un soldato". Ottima risposta, scemo io che lo chiedo ad un'anarchica. Riformulata la domanda, la tipa di AATW mi dice che il loro movimento e' molto isolato e malvisto dagli israeliani, che diventano sempre piu' radicali nel loro sionismo e militarismo. Proprio quello che non volevo sentire. Tra bandiere, tamburi, cori in arabo e sermoni di palestinesi piu' anziani, il corteo e' arrivato di fronte al check point che blocca la strada, dove quattro jeep e una quindicina di soldati israeliani (che avresti detto russi, polacchi o arabi) ci sorridevano divertiti, armati di mitra e giubbotto anti proiettile, fumavano e fissavano il culo alle belle palestinesi. Dietro di loro vari fotografi dell'esercito facevano foto ai dimostranti. I bambini palestinesi erano in prima fila, le braccia alzatate e il simbolo della vittoria, bandiere della Palestina e dell'Autorita' Palestinese. Non sono state tirate pietre e non ci sono state provocazioni. La manifestazione e' durata un'oretta scarsa in tutto, abbiamo avuto l'occasione di conoscere i vari attivisti e dimostranti, soprattutto parlare con gli altri ragazzi e ragazze internazionali.
Prima e dopo la manifestazione abbiam avuto un paio di riunioni organizzate da Holy Land Trust, dove discutiamo sempre e ci confrontiamo su tattiche di resistenza, concetti di violenza e non violenza. "Violenza e' il mezzo con il quale qualcuno ti ruba la terra e il mezzo con il quale te la riprendi" ha detto una ragazza palestinese. E ancora giu' un lungo elenco di testimonianze riguardo alle sofferenze ed ingiustizie subite da questi palestinesi. Si chiedono (e mi chiedo) come mai le comunita' internazionali non fanno nulla per loro a livello politico e non impongono a Israele lo stop all'occupazione militare e al furto della terra.
Il nostro viaggio proseguira' domani verso Hebron, Palestina meridionale, sempre con i catalani e Holy Land Trust.

Thursday, August 13, 2009

Diario di viaggio (VII): Come costruire una gabbia e chiamarla "Pace".




"Non avrai altro Dio all'infuori di me, spesso mi hai fatto pensare; genti diverse venute dall'est, dicevano che in fondo era uguale: credevano ad un altro diverso da te, non mi hanno fatto del male, credevano ad un altro diverso da te, non mi hanno fatto del male"

Fabrizio De Andre', Il Testamento di Tito

PREMESSA: Siamo venuti in Palestina con un fine ben preciso: capirci qualcosa. Ovvero ripartire con il sacco piu' pieno di quando siamo arrivati. Capire come? Attraverso l'osservazione, attraverso la gente, le letture, attraverso il volontariato. Quello che vedo e ascolto in questi primi giorni di Palestina non e' facile da capire o da spiegare, ho una grande confusione in testa, le domande che faccio e le risposte che ottengo aumentano la confusione e producono soltanto altre domande. Di certo la situazione e' insieme estremamente complessa e complicata.

Ero all'ultimo anno di liceo quando vidi per la prima volta immagini dalla Palestina: era la seconda Intifada, settembre 2000. Vedevo bambini tirare pietre contro dei carri armati. Non ci metti molto a capire da che parte schierarti. Ho cominciato ad interessarmi e leggere di Palestina durante l'Universita'. Parlavamo di occupazione, di muri, di resistenza, di palestinesi contro israeliani, di oppressi contro oppressori. Parlavamo di Rachel Corrie, una giovane ragazza americana uccisa dalle ruspe israeliane in Palestina. L'anno scorso, mentre ero in Spagna, un'amica di Barcellona mi parla della sua esperienza con International Solidarity Movement in Palestina. Decido che e' ora di andare e, un anno dopo, eccomi qua. Per capire da vicino, per vivere, per (possibilmente) aiutare. Insieme con Chiara e Fabio, compagni di viaggio, decidiamo la strada per raggiungere la Palestina (via Egitto e Giordania) e troviamo i contatti e le organizzazioni con le quali muoverci in Israele.
A Betlemme abbiam deciso di collaborare con Holy Land Trust, un'organizzazione palestinese che lavora per la pace, accetta volontari internazionali e organizza training e tour per le zone limitrofe, al fine di mostrare le varie realta' locali ai visitatori. Lumna, una delle organizzatrici, ci propone di aggregarci ad un gruppo di giovani insegnanti catalani in tour per la Palestina. Il loro viaggio e' finanziato dalla provincia catalana e consiste nel visitare luoghi e scuole palestinesi, realizzare foto reportage e attivita' coi bambini. Ci aggreghiamo volentieri. Le giornate sono cosi' organizzate: la mattina, dalle 9 alle 13, training nella sede del Bible College, dove si discute di pace, non violenza, resistenza all'occupazione dai diversi punti di vista e gli attivisti palestinesi di Holy Land Trust (giovani e meno giovani, musulmani e non, sociologi, psicologi, insegnanti, studenti, social workers, ex detenuti delle carceri israeliani, rifugiati, etc...) tengono dei workshop (lezioni e dibattiti) sulla situazione in Palestina e sulla storia di questi posti; dopo il pranzo collettivo, ci portano in pulmino a visitare i campi profughi (a Betlemme ce ne sono tre), i villaggi occupati, il muro e altre realta'. Piu' faccio domande e meno capisco. Ma non me ne meraviglio troppo.
I campi profughi non sono formati da tendopoli, niente di simile insomma a quelli che vedete in TV relativi ai paesi africani. Sono costruzioni nei quartieri periferici di Betlemme, risalgono agli anni sessanta. Dheisheh ha 12.000 abitanti, Azza e Aida qualche migliaio. Anche questi sono pieni di bambini che giocano in strada, piccoli negozi, murales di Arafat e Che Guevara, centri delle Nazioni Unite. Il muro e' quell'orrendo mostro di cui tanto si parla nei giornali di mezzo mondo quando si parla di Palestina. Ed e' orrendo davvero. Alto il doppio del piu' celebre muro di Berlino e' coperto di scritte e murales in tutte le lingue del mondo. Trovi disegnati fiori, simboli della pace, A cerchiate, falce e martello, croci celtiche, svastiche. Infiniti gli slogans: "Berlin 1989, Palestine??", "En Madrid como en Gaza: Intifada!", "Una vittoria ottenuta con la violenza equivale ad una sconfitta", "Benvenuto Benedetto XVI", "Obama, noi aspettiamo", ... Il muro l'hanno costruito gli israeliani,ufficialmente per difendere i coloni israeliani. Cosa sono i coloni israeliani? Sono civili israeliani che vivono nei territori occupati dagli israeliani stessi, ovvero in terra palestinese, Cisgiordania (o West Bank).
Ebreo e' colui che professa la religione ebraica, l'ebraismo. Israeliano e' il colui che vive in Israele, sia esso arabo o meno, ebreo o meno. Sionista e' colui che auspica una terra di soli ebrei nel territorio chiamato Palestina. Ebreo, israeliano e sionista non sono la stessa cosa, ma esistono ebrei israeliani sionisti. La parolaccia qui e' "sionismo". Il sionismo ha cacciato via i palestinesi negli ultimi cento cinquant'anni di storia. Date un'occhiata all'immagine in alto. I verdi sono i palestinesi, i bianchi gli israeliani. Dal 1946 al 2000 il governo israeliano si e' pian piano (e a seguito di guerre provocate anche da paesi arabi aggressori) mangiato il territorio palestinese, la terra dei palestinesi. In culo alle convenzioni e agli accordi internazionali (Oslo e Madrid in primis), in culo a Rabin, Arafat e Clinton. E ora i palestinesi che ancora osano vivere in Palestina (1.500.000 circa nella Striscia di Gaza, 2.500.000 circa in Cisgiordania) vivono sotto occupazione militare e in uno stato di apartheid. Non sono piu' padroni di nulla, si definiscono "popolo senza terra", vivono con acqua ed elettricita' razionata dal governo di Israele, non hanno liberta' di movimento, non possono muoversi da una citta' ad un altra senza permesso, non posso andare all'estero senza permesso del governo d'Israele. Insomma vivono bene come bene si vive in una gabbia. Questo e' quello che gli israeliani chiamano "pace": ridurre i palestinesi in gabbia, sperando che prima o poi se ne vadano via tutti. Anche per questo l'avere quattro o cinque figli per famiglia per i palestinesi e' una forma di resistenza. Cinque milioni di palestinesi vivono come profughi all'estero, ad un milione non e' riconosciuto lo status di profugo.
1948, 1967, 1976, 1987 e 2000 sono le date chiave. "Oslo" e' una promessa tradita, "Autorita' Palestinese" un fantoccio come la Green Line, "Nakba" e' la parola che indica il sentimento di dolore dovuto all'oppressione israeliana. I palestinesi vogliono la pace ma covano inevitabilmente un sentimento di odio verso gli israeliani. Fanno resistenza, dove qui "resistere" significa "lottare per esistere": come persone, come cultura, come tradizione, come popolo legato ad una terra. La "chiave" e' il loro simbolo, indica la loro intenzione di tornare nelle terre dalle quali sono stati cacciati, nelle case che han chiuso a chiave prima di andarsene sotto la spinta dell'avanzata israeliana. Parlano di Arafat, di Fatah, di Hamas, di violenza e di non violenza, del maiale Ariel Sharon, boia dei campi profughi palestinesi di Sabra e Shatila in Libano nel 1982 e responsabile della prima Intifada nel 1987. Vogliono l'abbattimento del muro, la fine dell'occupazione israeliana, la liberta' di movimento, sperano nella creazione di uno stato palestinese. "Due popoli, due stati" e' lo slogan che sbraitano anche i politici italiani. A me sinceramente molte cose non tornano.
Quello che fanno gli attivisti di Holy Land Trust e gli attivisti di molte altre organizzazioni palestinesi e' una educazione alla pace, nelle scuole e nei luoghi di lavoro, con attivita' di resistenza non violenta nelle zone occupate dai coloni e dai militari israeliani: partite a calcio, dimostrazioni sotto il muro, piantagione di alberi di ulivi, etc... Lo slogan e' "UN can't, we can": quello che non riescono a fare le Nazioni Unite noi riusciamo a farlo. Parlano di rivoluzione e di riformismo. I loro idoli sono Gandhi e Martin Luther King. Certo, non e' facile. C'e' sempre qualcuno (specie i bambini) che lanciano pietre, ricevendo in cambio pallottole o carcere. Per questa gente lanciare pietre non e' violenza. La pietra e' un simbolo. E simboleggia la situazione di oppressione e resistenza del popolo palestinese. E' un "non benvenuto". Non lanciano pietre per uccidere, ma per ribadire il loro disgusto all'occupazione. Per altri non e' violenza neanche imbottirsi di esplosivo e farsi saltare in aria in obiettivi militari israeliani. Non civili, ma militari. A noi italiani o catalani questi discorsi lasciano sconcertati, pace e non violenza non vanno d'accordo con pietre e kamikaze. Ma e' anche vero che noi veniamo dai banchi delle universita' europee. Non abbiamo mai vissuto occupazioni straniere ne' abbiamo fratelli o cugini uccisi dai militari israeliani. Non abbiamo speso anni nelle prigioni israeliani ne' siamo stati torturati.
Io non voglio giustificare niente e nessuno. Mi sforzo anche di non giudicare. Cerco di capire e non ci riesco. Per quel che mi ricordo io, il principio che c'e' dietro la non vi0lenza e' il fatto che la violenza porta sempre e inesorabilmente ad altra violenza, in un circolo vizioso e senza fine. Smettere di far violenza ha il fine di terminare la violenza che si fa e che si subisce. Ma se, violenza o meno, la violenza dall'altra parte non termina, allora la non violenza non ha molto senso. La non violenza porta solo ad uno status quo che e' inaccettabile per i palestinesi. Per questo alcune di queste persone giustificano le pietre o addirittura le bombe. A
Gaza, infatti, Hamas prende il massimo dei voti. Parliamo di pace, di futuro, di convivenza ma si finisce sempre col tirare fuori pietre e bombe, muri e occupazioni. Ho una grande, grossa, riassuntiva domanda, troppo semplice ed innocente per meritare una risposta: perche' non evitare le separazioni, smetterla di parlare di stati, smetterla di costruire muri e check points e fare semplicemente una cosa: convivere israeliani e arabi nella stessa terra palestinese?! Da quanto ho capito, la scelta della separazione e' un dogma per entrambi le parti, un postulato da cui iniziare il dialogo, la prima scelta da farsi, la prima scelta fatta, gia' un centinaio di anni fa. A distanza di cent'anni, non sarebbe meglio rivedere questo postulato?!?
Domani, come ogni venerdi' dal 2006, in tutta la Palestina ci saranno manifestazioni contro il muro. Domani, a Betlemme, parteciperemo anche noi.

Wednesday, August 12, 2009

Diario di viaggio (VI): Primi giorni a Betlemme.


L'arrivo alla frontiera Re Hussein, tra Giordania e Israele, e', come dicevo, una sorta di chaos umano mai visto, una sorta di Apocalisse. Centinaia di persone ad una serie disorganizzata (per fare un complimento) ed interminabile di check in, controlli, domande, mazzette. E giovani ragazze israeliane in divisa e ragazzini col mitra in mano. Non bisognerebbe far giocare i bambini con le armi. La gente che passa la frontiera e' in gran parte composta da arabi, molti dei quali palestinesi. Il resto sono turisti e viaggiatori. Questi ultimi sono aiutati dalle ragazze in divisa a saltare le fila. Mezz'ora dopo siamo fuori dalla dogana, in territorio israeliano. O meglio, palestinese. Un signore palestinese che fa di professione il medico ci da' subito il benvenuto in questa terra martoriata dove i palestinesi vivono in stato di apartheid. Ci dice di Roma "bellissima citta'... ma troppi zingari!". Chiara gli chiede come si vive in Palestina e perche' non se ne va di qui. "Non posso. E' una questione di principio", risponde. Un altro tipo, che avevamo notato litigare animosamente con una guardia della dogana, ci spiega che questa e' terra palestinese, non israeliana. "Gli israeliani ci hanno occupato militarmente. Ma dio e' grande". Ci invita a Ramallah, a casa sua, per farci vedere come sono costretti a vivere i palestinesi. Ma la nostra prima destinazione e' Gerico. Caldo asfissiante, militari e check points, il nostro bus ci scarica alla stazione dei bus di Gerico. Vorremmo andare a fare il bagno nel Mar Morto ma non ci sono bus e un gentile taxista ci consiglia l'autostop. La stazione dei bus e' piena di ragazzini palestinesi tornati da qualche vacanza. La gente e' estremamente cordiale con noi che siamo gli unici tre viaggiatori nella stazione. Nessuno cerca di venderci cazzatelle o incularci in qualche modo, come tipicamente capita ai turisti in posti del genere. Prendiamo un bus per Betlemme, cittadina di 30.000 abitanti nel centro della West Bank (Cisgiordania), pochi chilometri a sud di Gerusalemme. Il bus e' quasi vuoto, ma al primo check point salgono degli uomini armati (soldati dell'Autorita' Palestinese) a chiedere i documenti. Due tizi fan finta di dormire e salgono altri uomini armati, atmosfera tesa, i soldati ci fanno segno di voltarci e non osservarli. "Ora saltiamo in aria" penso, invece la situazione si risolve, i soldati scendono e il bus riparte. Un signore vicino a noi ci da' il benvenuto in italiano, dice di aver studiato a Pisa negli anni novanta e di avere una farmacia a Hebron, a sud di Betlemme. Scendiamo a Betlemme, un signore alla stazione dei bus mi lascia usare internet nel suo negozio, gratis. Ci aiutano a cambiare soldi, capire dove siamo e cercare il posto verso il quale siamo diretti, ovvero la sede di Holy Land Trust, l'organizzazione che abbiam contattato per fare volontariato a Betlemme. La sede e' chiusa. Il ristoratore accanto alla sede ci fa usare gratis il telefono. La sede aprira' soltanto due giorni dopo.
E' un via vai di auto della polizia, sirene, camion dell'esercito, soldati ogni cinquanta metri con mitra e giubbotto anti proiettile. Ma ci spiegano che e' solo per una conferenza di quattro giorni nel centro di Betlemme, si riuniscono i leader di Fatah, uno dei principali partiti politici dell'OLP. Ne han dato notizia anche i giornali italiani. Il centro e' pieno di soldati e giornalisti, posti di blocco e atmosfera tutt'altro che rilassata. Bambini e gente comune continua a salutarci con una serie infinita di "Welcome!". Un signore ci aiuta a trovare un ostello economico, un palazzo che un suo amico sta trasformando in hotel per turisti. Salendo verso il centro, un altro palestinese con una bambina ci accompagnano al suddetto ostello. Il proprietario e' un simpaticissimo palestinese che vive negli Emirati Arabi Uniti. Ci da' un'ampia stanza con tre letti, ventilatore, bagno e cucina per 20 shekel a testa per notte (3,50 euro circa). Un affare insomma. Ci lascia anche le chiavi e il permesso di prendere frutta dal giardino (uva, fichi e melograni soprattutto). Ci invita anche alla festa del cugino. C'e' sempre una festa da queste parti, musica, danze e fuochi d'artificio fino a tarda sera. La vita non costa poco, perche' si usa la moneta israeliana e tutti i prodotti sono soggetti a forte tassazione, in quanto importati dall'estero. Frutta, acqua e felafel (kebab vegetariani) hanno prezzi accettabili. Decidiamo di tenere la stanza per una settimana almeno.
I primi due giorni passano a passeggio per la citta'. La cosa piu' impressionante, soldati a parte, e' la concentrazione di circoli culturali e centri artistici che la citta' offre. Molte le chiese (cattoliche, ortodosse, cristiane greche e armene), le moschee e i musei. Con Chiara e Fabio ci perdiamo nelle viuzze del centro tra mercati e centri culturali vari. Parliamo con la gente nei negozi, nelle bancarelle, nelle case, nei centri. Son tutti disposti ad offrirti una sedia ed un caffe' (che sa di Jagermeister, ma analcolico). Non siamo noi a cercare loro, ma loro a cercare noi: vogliono illustrarci la situazione nella quale vivono, parlarci di Palestina, ci danno solidarieta' e se ne aspettano altra in cambio. Non paghiamo nulla, ci viene offerto tutto. Forse, come dice Chiara, siamo per loro una delle ultime forme di resistenza all'occupazione israeliana. Parliamo con un sacerdote dell'istituto salesiano: mappa sotto mano ci parla degli ultimi quarant'anni in Palestina, che ha vissuto in prima persona. Poi il centro artistico, retto da neo laureati palestinesi, con corsi di arabo e circo itinerante. Poi l'Associazione delle Donne Arabe. Poi la famosa Chiesa della Nativita', dove in una grotta sotterranea nacque due mila anni fa un rivoluzionario di nome Gesu', uno che parlava di amore per il prossimo e che prendeva a calci per il culo i commercianti fuori dai templi: non poteva che finire male, lo crocifissero tra due ladroni ad appena 33 anni. E' meta di pellegrinaggio per gente di fede e nazionalita' diversa, in primis italiani. Ho conosciuto degli scout di Caserta, in route in Terra Santa. Poco piu' giu' c'e' la "grotta del latte"; seconda la leggenda, una vergine mamma di Gesu' avrebbe li' allattato il figlio e la grotta sarebbe diventata tutta bianca al cadere di una goccia di latte. D'altronde tutta Betlemme e' composta da case basse e bianche, vivacissima di attivita' commerciali e artigianali. Ne' palazzoni ne' grattacieli insomma. Solo piccoli negozi, chiese e centri culturali. Arabi e cristiani vivono insieme, tutti palestinesi. Poche donne indossano il velo, nessuna il velo integrale. Fabio si fa portare in casa da dei bambini e fa amicizia con la famiglia di Amer: diventiamo ospiti fissi di questi gentilissimi signori palestinesi, cinque adulti e una quindicina di bambini. Qui le famiglie hanno almeno quattro figli. La disoccupazione al 20% ma non c'e' traccia di miseria, per due ragioni: la grande solidarieta' tra i palestinesi e gli aiuti che ricevono dall'estero. E' pieno di targhette che glorificano la donazione fatta dai governi italiano, belga, norvegese, danese. E poi da associazioni religiose, soprattutto cattoliche, soprattutto italiane. E poi da quelle degli artigiani della provincia di Verona e da Giovanni Rana, quello dei tortellini. Ogni palestinese ha almeno un fratello o un cugino ucciso dall'esercito israeliano o in carcere. Amer e' un ragazzo di 26 anni, ha studiato 3 anni in Egitto, ora si sta per laureare in economia e commercio all'Universita' di Betlemme. Suo fratello ha 41 anni, 7 li ha passati nelle carceri israeliani per aver tirato pietre durante gli attacchi dei soldati israeliani. Le sorelle, nipoti e cugine ci trattano da re a casa loro: han cucinato per noi riso e carne di gallina, ci offrono sempre te' alla menta o alla salvia, caffe', sigarette e narghile'. E' un piacere giocare con i bambini, disegniamo insieme e insegno loro qualche parola di cinese. Ci sentiamo a casa e spendiamo diverse ore del nostro tempo qui con loro. Ci parlano della Palestina, dell'occupazione, ci mostrano i luoghi, ci insegnano l'arabo. Non e' facile ne' comune trovare un'ospitalita' del genere. Ho promesso a Reena, nipote di Amer, di accompagnarla a scuola e fare lezione di cinese il 20 agosto, all'inizio del nuovo anno scolastico. Ci sara' da ridere.

Monday, August 10, 2009

Diario di viaggio (V): i beduini di Petra

Petra e' un sito archeologico e antichissima citta' della civilta' dei Nabatei, posta nella Giordania meridionale. Una delle non troppe meraviglie che ci restano al mondo. E' situata tra un deserto di alte montagne rocciose. Il paesaggio offre paesaggi mozzafiato, asini, cammelli, beduini e poc'altro. Per Petra son passati gli antichi romani, lasciando evidenti tracce. Il sito e' molto grande, il ticket e' di 21 euro ma bisogna dire che li merita tutti. Problema principale il caldo asfissiante che massacra i turisti durante la marcia. Rimedio a questo sono le interessantissime discussioni che possono nascere tra un turista no Alpitour e un beduino. Tra antiche tombe di re e quel che resta di templi sfarzosi, all'ombra di un muro o sotto un cespuglio eccoci a scambiare quattro chiacchiere con questi ragazzi dalla pelle scura, i capelli lunghi, le braccia tatuate, la matita sugli occhi, i turbanti e le kefie. Dapprima ci fermiamo a parlare con due giovani beduini mercanti di argento. Ci raccontano le loro avventure sessuali con russe, francesi, spagnole. Sono facili le europee, dicono. Ci parlano poi di ashish e viaggi in Tailandia. Piu' tardi invece incontro un'anziana signora che viene a chiedermi una sigaretta. Si siede vicino a me, ci scambiamo lunghi sguardi finche' non finisce la sigaretta, tira fuori un sacchettino nero pieno di antiche monete che dice di aver trovato nel sito. Poi e' la volta di un ragazzo che porta cammelli, asini e cavalli per gli obesi turisti americani. Mi spiega che un asino vive in media trent'anni. Che i musulmani non mangiano carne di asino. Che lui ha imparato l'inglese stando sempre con i tustisti, sostiene di aver conosciuto i turisti prima di aver conosciuto sua madre, mai andato a scuola, una "scuola senza scuola". Quando qualcuno si sposa fanno feste per diverse giorni nei villaggi, ci sono piu' di cinquecento invitati, mangiano a non finire e colorano il cielo di notte con razzi e fuochi d'artificio. Cosa che abbiam avuto modo di osservare direttamente nelle due notti accampati nel villaggio vicino Petra.
Il cammino continua poi per una ripidissima parete di scalini dove in cima si trova un antico ed imponentissimo monastero. Poco piu' sopra "la fine del mondo", ovvero uno strapiombo tra alte montagne rocciose, dove in un tempo andato facevano sacrifici umani. E' una delle visioni piu' suggestive che abbia mai visto. Fermandoti a riflettere capisci che dio non potrebbe che essere nato da quelle parti, tra deserti e montagne di pietra, dal nulla insomma. Non a caso le tre principali religioni monoteiste sono nate proprio qui. Sulla via del ritorno, tra sudatissimi turisti italiani, coreani, russi e spagnoli, un'anziana signora beduina mi lascia in mano un pacchetto di sigarette e un asino, pregandomi di portarlo al figlio, piu' sotto, a valle. Prima ancora di capire cosa stia succedendo mi ritrovo con il suddetto asino fra le palle e Chiara che non la finisce di ridere e scattare foto. Il mestiere di portatore d'asino non e' poi cosi' male, ci faro' un pensierino per il futuro.
Torniamo all'ostello sfiniti e bruciati dal sole. Decidiamo di muoverci verso Amman, capitale della Giordania, e da li' verso il Mar Morto (che in realta' e' un lago salatissimo) e il confine con Israele. Facciamo cena nel villaggio con del pane e una cesta di pomodori che qualcuno ha lasciato incostudita. Ce ne andiamo appena vediamo in un bar dei tizi maneggiare delle pistole. Passiamo poi la notte in quella che ha tutta l'aria di essere una stazione dei bus, il mattino alle cinque e mezza ci sveglia un tipo chiedendoci se dobbiamo andare ad Amman e un paio d'ore dopo eccoci nella capitale. Tiriamo fuori gli ultimi spiccioli di dinar giordano e prendiamo un taxi verso la frontiera con Israele. Con nostra grande sorpresa la frontiera e' ben distante dal Mar Morto e dunque il nostro tanto sperato bagnetto nelle salatissime acque va a farsi benedire. Mai affrontato un viaggio piu' disorganizzato, ne' guida, ne' mappa, solo vaghi ricordi di come sia fatta la geografia del Medio Oriente. Dopo fastidiose burocrazie e incazzature con i burocrati attraversiamo il confine con Israele. Ad attenderci e' una visione da fine del mondo, quinta essenza dell'anarchia, a meta' tra la fila per un pasto caldo alla mensa dei poveri della Stazione Termini a Roma e un campo profughi nell'Africa nera. Ma di questo parlero' la prossima volta. Sono a Betlemme, a sud di Gerusalemme, Palestina, Israele Orientale, West Bank o Cisgiordania che dir si voglia. Il posto e' magico ed e' gia' amore a prima vista: Palestina libera!!

Thursday, August 06, 2009

Diario di viaggio(IV): la Las Vegas del medio oriente e considerazioni sull'Egitto

Usciti dall'Egitto al tramonto siam entrati via terra in Giordania all'alba da Israele. Passare dall'Egitto ad Israele e' come passare da Napoli al Principato di Monaco. Alla frontiera ci han accolto giovani e bellissime quanto poco simpatiche poliziotte israeliane. Controllo zaini e passaporti, raffica di domande stile test psicologico, ma mi aspettavo di peggio. "La frontiera con la Giordania e' chiusa fino a domattina, dove passerete la notte?". "A casa tua c'e' posto?!". La bella israeliana in divisa non ha gradito la simpatia. Conosciamo un giovane scoppiato che ci propone di andare a bere birra in spiaggia. Diciamo che abbiam voglia di passare la notte in attesa di un bus per la Giordania e ci da' un passaggio in taxi verso la frontiera giordana, dove dormiremo su scomode panchine. Il breve tratto di strada che separa l'Egitto dalla Giordania e' la citta' israeliana di Eilat. Una Las Vegas nel deserto: discoteche, pub, luci che illuminano a giorno, belle macchine, strade pulitissime, ragazze in top e minigonna... e noi che veniamo da una settimana tra donne coperte dal velo e cammelli. Stacco interessante.
Entrati in Giordania all'alba troviamo un paese che ancora ha il re e il cambio con l'euro che e' circa 1 a 1. Costosissimo insomma, per i nostri gusti da viaggiatori squattrinati. La citta' di Aqaba e' decisamente piu' pulita e ricca di quelle viste in Egitto. Non c'e' gente accampata per strada ne' mendicanti, diversi uffici turistici che ci aiutano a prendere il primo pulmino per Wadi Musa, il villaggio dove ci troviamo ora. Il nostro cammino dovrebbe proseguire per Petra, poi Mar Morto e finalmente Palestina Palestina!!

Che dire dell'Egitto?! L'Egitto ha ottanta milioni di abitanti di cui venti vivono nella capitale. Il dieci per cento della popolazione e' cristiana, di cui la principale comunita' e' quella copta. Notevoli le differenze tra gli egiziani del nord (piu' simili ai siciliani) e quelli del sud (piu' simili ai sudanesi). Anche qui hanno notevoli problemi con i migranti, uno stato sociale assente, una legge che non esiste e una societa' regolata dal buon senso della tradizione islamica. A occhio e croce un cinquanta per cento delle donne indossa il velo che copre capelli ed orecchie, un venticinque per cento non porta velo e il restante venticinque per cento porta quello integrale, simile al burqa afgano, che qui chiamano "dujab" o qualcosa del genere. Masuda sostiene che l'uso del velo non era tipico fino a qualche anno fa e che viene dai paesi piu' conservatori della penisola arabica. Le donne del mondo sono tutte belle, ma alcune sono piu' belle di altre e credo che le donne di qui siano fra queste. Il narghile' si chiama "shisha" e ne fumano in ogni dove. Non ho visto molti bazar ma tantissime mosche e chiese cristiane copte ed ortodosse. Qui le comunita' di etnie e religioni diverse convivono da millenni, lo straniero non fa paura e il fratello non lo si caccia di casa. Capre, cammelli, asini, bambini ed immondizia riempiono le strade. Il Cairo e' una citta' inquinatissima e piena di sporcizia, ma secondo Chiara la situazione non e' molto diversa da Napoli. Cosa stranissima non ho trovato turismo di massa, solo qualche pullman di turisti che compare e scompare e qualche viaggiatore zaino in spalla. Forse perche' e' bassa stagiona, forse perche', come qualche commerciante mi ha detto, la crisi si sente anche qui. La cucina egiziana non credo sia nulla di eccezionale: gli ingredienti sono comuni a quelli degli altri paesi dell'area mediterranea e onestamente preferisco la cucina turca, cinese o italiana. Di frutta ne hanno un casino e squisiti sono i succhi di frutta che compri per strada dagli ambulanti. L'acqua sarebbe meglio comprarla in bottiglia, ma nelle moschee e lungo le strade trovi acqua che gli egiziani bevono e non muoiono. Ovviamente commercianti, albergatori e tassisti provano sempre ad incularti, ma in generale la gente e' onesta, cordiale e disponibile. L'Egitto ha lo stesso governo da decenni e la situazione era migliore durante il socialismo di Nasser, quello che se non ricordo male nazionalizzo' il canale di Suez dandola in culo al colonialismo inglese e francese. Grazie Nasser, bombardaci il Vaticano. Anche Il Cairo ha purtroppo degli slums. Ed e' piena di gatti. Per fortuna gli italiani sono sempre ben voluti dappertutto, sara' la simpatia o sara' Del Piero, a noi italiani danno sempre un aiuto in piu' rispetto a tedeschi, coreani o yankees. I beduini non sembrano andare troppo d'accordo con il resto degli egiziani. Stili di vita troppo diversi credo. Quest'anno il ramadan inizia il 20 agosto, ma tanto noi non mangiamo di nostro. E su queste note chiudo e riapriro' fra qualche giorno. Spero.

Buonanotte signori, viva l'anarchia!

Diario di viaggio (III): il Monte Sinai, i neo catecumenali, i barboni e il Mar Rosso

Lasciate Madusa e la sua famiglia la nostra prossima destinazione e' il Monte Sinai. Avevo in testa di visitare Luxor, le tombe dei faraoni, 12 ore a sud de Il Cairo, ma dopo tutto questo viaggiare artistico per i musei e le piramidi egizie, abbiam deciso di tagliare fuori Luxor e andare a scalare il Monte Sinai. Il Monte Sinai e' al centro del Sinai, una specie di penisola egiziana al confine con Israele. "Monte Sinai" mi riporta alla memoria uno dei tanti discorsi che quel giovane ribelle di Cristo fece in vita sua nelle terre palestinesi. E non capisco cosa c'entri con l'Egitto. Ogni volta resto allibito dalla mia ignoranza. Secondo la leggenda, sul Monte Sinai (che in arabo si chiama Jabal Musa, cioe' "Monte di Mose'") Mose' avrebbe ricevuto le tavole con i dieci comandamenti direttamente da dio. Quel dio comune ad ebrei, musulmani e cristiani. Il monte e' dunque meta di pellegrinaggio per gente di religione e nazionalita' diversa. Uno dei luoghi dal piu' grande fascino spirituale al mondo. Con Chiara e Fabio abbiam dormito ai piedi del monte, vicino ad un antichissimo cimitero e di fronte ad un bar turistico dove abbiam elemosinato del pane all'albergatore. Tizio in gamba. Di fronte al nostro agnosticismo ha domandato "Chi ringraziate quando vi rimette in sesto da una malattia?". Forse "dio" e' un semplice nome al dativo, come sentii dire da un mio professore di filosofia indiana. Alle due di notte abbiamo cominciato con molti altri la marcia verso la vetta del monte, tra sassi e deserto, tra cammelli e beduini. Nonostante lo zaino, sono arrivato in cima per primo. Forse era solo la stanchezza, ma mi sentivo come chiamato dal monte e affrontavo deciso il cammino, illuminato solo dalla luna, circondato dal silenzio. Una pizza margherita di dimensioni giganti mi e' apparsa piu' volte lungo la strada. Credo sia successa la stessa cosa a Mose' qualche migliaio di anni fa. Due ore dopo ho goduto del paesaggio ineguagliabile che si ammira dalla vetta. Poco dopo son comparsi Chiara e Fabio. Stesi i sacchi a pelo a terra, ci siamo svegliati due ore dopo, quando decine di persone da ogni parte del mondo erano pronti ad osservare l'alba. Tra questi, molti italiani. Ho notato ragazzi parlare italiano, spagnolo e francese armati di chitarre e jambe'. Al sorgere del sole han intonato canti di fede. Sono neo catecumenali da diversi paesi, in pellegrinaggio verso la terra santa. Quando han cantato "Ama il prossimo tuo come te stesso" ho chiesto una sigaretta ad un tizio italiano. "Me dispiace, ne ho solo due". Ho chiesto allora ad uno di quei beduini che fan da guida. Mi ha lasciato tutto il pacchetto. Dio ha dato anche a me oggi un grande insegnamento: alle parole non credere mai, specie a quelle dei neo catecumenali. Finite le canzoni, i neo catecumenali han fatto colazione. Con mia grande sorpresa ed orrore han lasciato nei cestini dell'immondizia quantita' sfacciate di cibo. Quando se ne sono andati, Fabio, Chiara ed io ci siamo divisi i rifiuti con i beduini: pane, formaggio, marmellata, miele e succo di mela. Anche qui dio non ci ha risparmiato un altro grande insegnamento. Sulla strada di ritorno ho osservato gruppi e comunita' varie: italiani improvvisare una messa, coreani leggere la Bibbia, ortodossi russi scattarsi foto, anziane signore di Hong Kong, giovani musulmane malesi. Decisamente un grande posto, il Monte Sinai.
Abbiamo poi speso un'oretta a cercare un pulmino e contrattare il prezzo verso la nostra prossima destinazione: Neweba, a 120 chilometri, sul Mar Rosso. All'autista facevamo cosi' pena che ci ha comprato di tasca sua una quindicina di focaccie di pane.
A Neweba speravamo di trovare una grande citta' con spiagge da incanto e una nave economica per Aqaba, in Giordania. Abbiamo invece trovato un afosissimo villaggio di pescatori, dove nessuno parla inglese e un posto in nave per Aqaba costa 65 euro. La classica situazione dove non sai se ridere o piangere. Abbiamo pero' incontrato per strada un bus scassato con a bordo molti viaggiatori zaino in spalla diretti verso nord, al confine con Israele. Un'ora dopo eravamo a Taba, altro afosissimo villaggio di pescatori e militari, a due chilometri dalla frontiera. Abbiam cosi' deciso di raggiungere Aqaba e la Giordania passando via terra per Eilat, in Israele. Alternativa piu' lunga, faticosa e stupida, ma decisamente piu' economica delle fottute 65 euro di nave. Taba si trova in una posizione davvero intrigante: le spiagge del golfo puntano la Giordania, hanno Israele a nord e l'Arabia Saudita a sud. In venti chilometri attraversi tre paesi: Egitto, Israele e Giordania.
Sfiancati dal caldo, abbiam gettato zaini e mutande in spiaggia e ci siamo concessi un lungo bagno nelle limpidissime acque del Mar Rosso. Giusto in tempo per osservare le donne musulmane fare il bagno completamente vestite, un tizio pescare un barracuda di un metro e venti e ricevere l'ennesima offerta di scambio Chiara-cammelli da un simpatico ragazzo egiziano. Molti chilometri piu' a sud c'e' Sharm El Sheik, nota zona balneare dove il turismo non conosce crisi. Specie quello italiano.

Diario di viaggio (II): A volte, le persone speciali

Il viaggio si fa sempre piu' spirituale grazie soprattutto all'incontro con una delle ragazze piu' interessanti che abbia mai conosciuto: Masuda. Egiziana ventiduenne, musulmana senza velo, compagna di studi di Chiara in Giappone e sua grande amica. Sono riuscito a farla ridere due volte in quattro giorni. Ma la seconda volta il mio cuore ha battuto piu' forte di quanto mi aspettassi. E cosi' mi sono innamorato della prima egiziana con laurea in letterature comparate che passava.
Masuda ci ha fatto da guida ed interprete per i musei, le strade, le mosche e le piramidi de Il Cairo. L'abbiamo torturata con pressing di confronto culturale e dibattiti filosofici che forse non si aspettava da tre barboni italiani con la merda nel cervello. Pensa degli europei che abbiano perso l'umilta' e le buone maniere. Ma noi facciamo eccezione. Masuda ci ha ad esempio spiegato che le donne nelle moschee pregano dietro agli uomini non per un fatto di sottomissione ma perche' in caso contrario gli uomini si distrarrebbero. Con Masuda impari il senso piu' profondo di relativismo culturale. E quanto, nonostante i luoghi comuni e l'apparenza, anche i piu' fanatici musulmani egiziani sono in realta' dei gran porci da poter sfidare il piu' coatto dei romani. Masuda mi ha raccontato di quando studiava in Giappone e vide cadere la neve per la prima volta in vita sua. Tutta eccitata fece alla sua nuova compagna di stanza: "Guarda!! Nevica!!". E la tipa: "E allora?! Ma da dove vieni?!". "Egitto. E te?", rispose Masuda. "Alaska". Questione di punti di vista. E di geografia. Decisamente.
Ma il massimo di Masuda e' l'ospitalita' che ci ha riservato a casa sua. E il massimo della spiritualita' e' l'ambiente che si respira tra la sua famiglia. Masuda ha due fratelli e due sorelle. La madre, egiziana, ha un dottorato ad Harvard. Il padre, tedesco, insegna filosofia all'universita'. la casa e' piena di libri, quadri, artigianato e oggettistica di chiaro riferimento religioso. Sono tutti musulmani, con un grande senso di solidarieta' umana e attenzione per il prossimo e le problematiche sociali. Il te' in Egitto lo bevono fumante e zuccheratissimo (mettono tanta quantita' di zucchero quanta ne serve per fare si' che il cucchiaino si regga in piedi nel bicchiere) e ne abbiamo bevuto moltissimo seduti sui tappeti e i cuscini di casa, scambiando relative esperienze e improvvisando dispute filosofiche. Ho parlato di calligrafia con un artista scozzese, di aborto con la mamma di Masuda, tradotto caratteri giapponesi da un libro d'arte con Masuda. Il top e' stato un film di un regista iraniano, "Balab-azir" mi sembra fosse il titolo, uno dei film a piu' alta spiritualita' che abbia mai visto. In persiano con i sottotitoli in tedesco, prontamente tradotti in inglese da Masuda e dalla sorella. "Come puo' la morte terminare qualcosa che non ha mai avuto inizio?!". Forse abbiamo qualche speranza per una vita dopo la morte. E poi le poesie di Rumi, scrittore persiano del XIII secolo. Robe da passarci le notti sopra.
Volate le tre notti che abbiamo passato con Masuda e la sua famiglia. A questa ragazza auguro tutto il bene del mondo, perche' credo se lo meriti davvero.

Diario di viaggio (I): Il Cairo e i cowboys...

Cazzo finalmente riesco a metter piede in un internet point. Ottavo giorno di strada, centinaia di chilometri macinati. "Ehi capo, come si chiama questo minchia di posto?!". Wadi Musa, mi sembra. Giordania meridionale. Una mezzoretta a piedi da Petra per capirci. Ma andiamo con ordine.
Passate ottime giornate a Macerata cosi' come a Roma, in compagnia di amici e vizi vari, ho lasciato l'Italia a Fiumicino un po' con la lacrimuccia. Tutto sommato l'Italia non e' un posto di merda, basta non leggere i giornali e gettare la televisione dalla finestra. In aeroporto becco Chiara, studentessa napoletana, compagna di viaggio. Lungo abbraccio che infastidisce la guardia all'ingresso. La nostra prima destinazione e' Il Cairo, incredibile metropoli e capitale dell'Egitto. Abbiamo un paio di indirizzi di ostelli economici segnati con penna rossa su un fogliaccio. Si riveleranno inutili: la gente non parla inglese, tantomeno capisce la nostra pronuncia delle vie. Citta' caotica come poche altre ne ho viste, estremamente viva, gente in strada e casino fino alle tre di mattina. Per fortuna (primo dogma di questo viaggio) c'e' sempre un egiziano che ha vissuto a Milano e conosce dieci parole in italiano. Cosi' come c'e' sempre un gatto nei posti dove finisco a dormire: non ho mai gradito la mia allergia ai gatti. Troviamo una cameraccia come quelle nei racconti di Bukowsky, anche troppo larga e raffinata per i miei gusti. Prezzo accettabile. La gente e' davvero gentile. Ma forse parlo cosi' solo perche' vivo in Cina, dove le buone maniere e le relazioni sociali funzionano piuttosto diversamente. Mi sento a casa. E la mia casa si chiama Mar Mediterraneo, ovvero la terra bagnata da questo mare che se potesse parlare di storie da raccontare ne avrebbe. Non mi importa cosa dica Borghezio e tutta la trafila di xenofobi italiani, io il marocchino, il libanese o il turco le sento fratelli, ci accomunano troppe cose, "calore" umano e ospitalita' in primis, cosa che in Asia orientale non hanno e non sanno cosa si perdono. Purtroppo (ma come sempre in questi casi) la gente piu' gentile e calorosa e' quella che lavora nell'industria del turismo, e vede il viaggiatore come un pollo da spennare. Con me questi sciacalli sbattono ancora male.
Le prime due giornate a Il Cairo corrono via velocemente e vedono me e Chiara sempre in strada sotto i quaranta gradi ad osservare le genti, gli indumenti, gli usi, i cammelli. A fare "people watching" insomma, e a perderci in lunghe discussioni filosofiche che terminano ore dopo con un "Bene. Che ci mangiamo per cena?!". Il viaggio prende subito un'inaspettata e piacevolissima piega spirituale. Io e Chiara siamo entrambi agnostici, con picchi di sfacciato ateismo, ma questa ragazza e' piena di quel tipo di sensibilita' e spiritualita' che ti spinge a cercare vita in una pietra abbandonata sul lato della strada. Filosofia pura. Mi mancava.
Tra giardini e musei, tra foto con bambini di strada e sorrisi della gente, le nostre prime 48 ore in attesa che anche il fratello atterri a Il Cairo se ne vanno felici felici. Oltre tutto pensavo che in un paese musulmano come l'Egitto mancassero negozi di alcolici. Sfortunatamente mi sbagliavo.
La terza notte ci spostiamo in un ostello piu' economico, sempre nella Down Town de Il Cairo. Un ostello amministrato da un simpaticissimo marpione egiziano. Un ostello che ospita tre calciatori nigeriani e una serie di internazionali viaggiatori zaino in spalla. Il marpione egiziano mi ha spiegato che ama le giapponesi perche' quando sorridono chiudono gli occhi e fotte loro il portafogli. Il marpione egiziano ha anche tentato di fottersi Chiara in tutti i modi, senza successo. Meglio e' andata ad un diciassettenne egiziano, proprietario di un negozio di cianfrusaglie: e' riuscito almeno ad aggiudicarsi un sensuale massaggio. La mattina arriva Fabio, fratello di Chiara. E' un artista, un esteta ed un fotografo. Un bravo ragazzo, forse troppo, di quelli che si fanno abbindolare dai cialtroni di strada e si fa rifilare profumi e altre inutili cazzate. L'ho soprannomiato "il venditore di tappeti". A me invece il soprannome me l'ha affibiato un tizio per strada, chiamandomi "Ehi you, cowboy!". Sara' forse per il cappello da antropologo che ho trovato in casa e gli occhiali da sole che ho gia' rotto e gettato in cestino a Taba, confine con Israele. A Chiara non abbiamo ancora trovato un soprannome. Potremmo pero' scambiare Chiara per una quarantina di cammelli o panette di ashish (le offerte certo non mancano!), ma quando concludiamo l'affare Chiara si rifiuta di essere venduta e l'acquirente ci tratta da froci perche' dice che gli uomini siamo noi e noi dovremmo decidere sulla proprieta' di una donna. Purtroppo sia io che Fabio veniamo da un paese dove le cose funzionano diversamente. E oltre tutto io sono un pessimo piazzista. Intanto pero', il viaggio si fa sempre piu' spirituale...