Saturday, June 12, 2010

Università come anticamera del mondo del lavoro

Torno ora fresco fresco da una conferenza internazionale sul lavoro, organizzata dal dipartimento di risorse umane della Renmin University. Solita sfilata di cervelloni americani, europei ed asiatici in giacca e cravatta, professori cinesi agitati e solitamente soddisfatti del “successo” dell’incontro e una massa di studenti cinesi usati per servire gli ospiti stranieri. Il solito spettacolo a cui assisti, da straniero, durante le conferenze internazionali. Più forma che contenuto, a volte sembra quasi di assistere un rito e ti chiedi dove sia la scienza. Egemone è sempre questo modello yankee style e politically correct in ambito accademico al quale credo un po’ tutti gli studiosi del mondo (e i cinesi in particolare) vogliono rifarsi e dal quale cercano di imparare.

Tematiche interessanti, anche se c’è sempre quel taglio da scuola economica e sociologica di trattare gli essere umani come numeri e pensare la forza lavoro come bestie da spostare da un posto all’altro per soddisfare i bisogni della gente. Boh. Stretto fa utopia capitalista e utopia comunista, sbarellato tra Smith e Marx, da anarchico punto l’attenzione sull’uomo come individuo e non elemento della società massificata e vedo il lavoro come alienazione e sfruttamento finalizzato al profitto dei pochi sui più.

In particolare il tema della sessione alla quale ho assistito riguardava il rapporto tra le università e il mondo del lavoro, ovvero come i docenti devono preparare gli studenti per inserirli un domani nel lavoro.

Vivendo e studiando in Cina (dovrei forse dire letteralmente “nelle università cinesi”) da anni mi sono sempre meravigliato come qui si studi solo ed esclusivamente per trovare un lavoro. Non importa cosa si studia o che lavoro si voglia fare, si entra all’università per potersi assicurare un lavoro. Almeno teoricamente. E lo stesso accade, ai miei occhi, soprattutto nei paesi comunisti o ex comunisti asiatici (Cina, Laos, Vietnam, Mongolia, Corea del Nord). Non si studia per passione o emancipazione personale, ma si studia per lavorare. Non che questo non accada in Italia, ma di certo non accade nel 100% degli studenti italiani e neanche nell’ 80% credo. Mi chiedo come i governi e la classe intellettuale pensino e strutturino le università. Spero non solo col fine di produrre individui che rispondano alle esigenze tecniche del mercato. Ma se penso ai miei colleghi di dottorato cinesi, so per certo che quasi tutti stanno facendo il dottorato solo per ottenere il pezzo di carta col quale fare carriera. Molti infatti già lavorano. E non li vedo (se mi posso permettere) molto interessati ai loro studi. Forse non sanno bene neanche di che cosa si stanno occupando e sono al dipartimento di sociologia così come potrebbe stare a linguistica o legge. Tutto questo mette un po’ di tristezza.

Mette tristezza questa funzionalità decisa a priori dello studio universitario. Me ne rendo conto anche parlando con amici e studenti di Tailandia, Laos, Vietnam, Corea, Cina. Sanno che dovranno stare in università 3-4 anni, si sentono fortunati e privilegiati (e questo lo capisco) nell’essere studenti e sanno già cosa li aspetto dopo. Lo trovo quasi immorale. Sacrificare gli anni più belli della tua vita all’interno di un disegno quasi “divino” che sa dove sei e sa dove andrai. Magari molti disoccupati o precari italiani darebbero un occhio per questo. Ma io, da fottuto borghese privilegiato pagato dal governo cinese, no. Anzi. Mi sembra quello che in una canzone viene definito il “futuro congelato”. Non si vive la giornata, si obbedisce ad un progetto. Non molto diverso dal produci-consuma-crepa o dal mangia-cresci-prendi moglie-fai figli-crepa. Che fine ha fatto l’uomo?! Dove è l’individuo?!

Io studio per passione, per conoscere, per essere libero. E mi rendo conto di essere un privilegiato in questo. Ma sentire questi docenti stranieri parlare di progettazione delle risorse umane anche nello schema università-lavoro mi deprime tremendamente. Vado un attimo a studiarmi questo “Lewis turning point” col quale spiegano l’aumento del prezzo della forza lavoro cinese e i casi di sciopero e suicidio tra gli operai. Poi ne riparliamo.

1 Comments:

At 10:14 AM, Blogger Massaccesi Daniele said...

per chi fosse interessato, on-line trovate l'articolo in pdf "what does the lewis turning point mean for china" di huang yiping e jiang tingsong.
io non c'ho capito nulla :)

 

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