Monday, October 04, 2010

Donne in Cina: critica al modello di femminilità

Riprendendo l'articolo dell'inviato di Repubblica sulle donne in Cina e dopo uno scambio di e-mail con un'amica italiana, vorrei spendere un bel po' di parole sul tema dell'emancipazione femminile oggi in Cina e non solo.

Mi occupo di donne in Cina da due - tre anni. Ho letto troppo poco di teorie femministe (più o meno classiche) ma abbastanza, credo, produzioni letterarie di matrice femminista (cinese e non). Questo testo non ha presunzioni accademiche o teoriche, ma è un personale ragionamento sul modello di femminilità dominante.

Il femminismo è tutto tranne che una corrente unita e ben definita. È invece un'insieme di movimenti e prospettive di analisi che variano (a volte talmente tanto da essere in conflitto aperto una con l'altra), ad esempio, da paese a paese e da tradizione a tradizione. La corrente che va ancora per la maggiore credo sia quella di tradizione marxista. Ma essendo per molti aspetti superata e reinterpretata, oggi altre correnti focalizzano, ad esempio, più sulla donna nel rapporto con la sua individualità e/o sessualità. Geograficamente parlando invece, vediamo come se le femministe occidentali reclamano uguali opportunità di lavoro e peso politico, quelle cinesi combattono ancora contro un sistema fortemente patriarcale, mentre quelle islamiche attaccano l'intepretazione maschilista del Corano.

Nel femminsimo marxista classe e genere sono strettamenti legati. Ricordo l'intervento di uno studioso e attivista tedesco durante un forum a Wuhan: “La classe è l'organizzazione sociale del lavoro. Il genere è una costruzione sociale. Entrambi hanno a che fare l'uno con l'altro”. Al di là della corrente di pensiero o della prospettiva di analisi che si voglia usare, definire cosa sia o come realizzare l'emancipazione femminile è un lavoro tutt'altro che semplice. Le ragioni sono ovvie.

Dovremmo rovinarci la giornta a pensare a cosa sia la libertà, cosa l'individuo, cosa il genere. Abbiamo di meglio da fare. Ma non posso fare a meno di ricordare il tipo cinese che tempo fa mi chiese: “Chi fa le faccende di casa in Italia?”. Non lo so di preciso, ma se penso a casa mia, le faccende di casa le hanno sempre fatte mia nonna e mia madre. E mia sorella da qualche tempo a questa parte. Non che mio nonno o mio padre si siano mai rifiutati di apparecchiare o spazzare a terra, ma solitamente il problema neanche si pone: lo hanno sempre fatto le donne. Fosse per me (campione di pigrizia) il letto non sarebbe mai rifatto e mangerei direttamente dal pentolone senza usare piatti o tovaglia. Quando invece mia madre prepara il pranzo riempie la tavola di cose che sa benissimo sarà poi lei a pulire e ordinare. Il cinese scoppia a ridere e mi fa notare come invece a casa sua le faccende le sbriga insieme alla moglie: questa è la parità sessuale.

Se vi fate un giro nelle case degli stranieri (leggi “occidentali”) a Pechino, troverete appartamenti ben tenuti e puliti. Poi capirete perché: in quasi ogni casa c'è una donna delle pulizie cinese. Una donna sui cinquant'anni, che parla solo il suo dialetto di origine e se ne sta silenziosa in giro a spolverare qua e là. Molti occidentali si incazzano perché dicono che queste donne non sanno pulire. Si incazzano anche i pechinesi stessi. Forse non hanno mai pensato che queste donne vengono da villaggi di campagna dove il bagno è un buco in terra fuori dalle quattro lamiere di casa. Qui si è evidente il legame tra genere e classe: il borghese è fuori a far soldi, impegnato in uffici e cene di lavoro, la migrante dalle campagne viene in città a guadagnarsi da vivere. Sono donne a lavorare, non uomini: in cinese c'è un detto tra gli operai migranti che più o meno significa “non elevarti a fare cose troppe difficili, non abbassarti a fare lavori troppo umilianti”. Pulire casa è umiliante. Ed ovviamente è un detto che gira tra operai uomini. Non donne.
In Italia non funziona molto diversamente: colf e badanti da Est Europa, America latina o Asia orientale affollano le nostre case, cambiando il pannollone all'anziano o passando la lucidatrice a terra. Anche qui troviamo donne, non uomini. Classe, etnia e genere.

Ma non è tanto su questo che voglio ragionare (se vi siete stancati di leggere andatevi a fumare una sigaretta: non sono arrivato neanche a metà del discorso).

Io detesto il modello di donna come scimmiottatrice di tutto ciò che di sbagliato e orribile fa l'uomo. Non possiamo condividere l'idea che se un uomo fuma allora anche la donna deve fumare, se l'uomo va in guerra allora anche la donna deve abbracciare un fucile e ammazzare, se l'uomo distrugge il pianeta allora anche la donna deve dargli una mano. Ovviamente ha tutto il diritto di farlo perché questo diritto è già stato dato (o meglio, è stato preso da) all'uomo. Ma non possiamo pensare l'emancipazione femminile come “ogni cosa che l'uomo fa, può farlo anche la donna” se questo significa “ogni cosa che di vergognoso fa l'umo, anche la donna può farlo”. “Può”, ma “non dovrebbe”. E “non dovrebbe” non perché lo decido io in quanto uomo, ma perché invece che “seguire l'uomo” la donna dovrebbe correggere il tiro.

In molti paesi (e specie in Cina) il modello femminile è quello della “donna in carriera”, la “successful businesswoman”. Possibile che emancipazione della donna sia sinonimo di “via della donna al capitalismo forsennato”?! Come è possibile che oggi in Cina la donna portata a modello su riviste, giornali, televisioni e cinema sia la donna che, dopo aver studiato, abbia aperto una fabbrichetta e si sia arricchita in pochi anni, guadagnando pagine e schermi dei media nazionali? Indipendente lo è per forza: da imprenditrice è in concorrenza con tutti. Ma c'è bisogno di essere dei capitalisti per essere indipendenti? Certo, una donna imprenditrice crea posti di lavoro. E allora? Anche la guerra crea posti di lavoro. Anche istituire la pena di morte crea posti di lavoro. Anche aprire un carcere crea posti di lavoro. Anche una fabbrica di mattoni dove perdono l'infanzia i bambini crea posti di lavoro. Come la vogliamo mettere?

Senza considerare poi il fatto che questo modello in Cina è in aperta rottura con la tradizione cinese più conservatrice: le donne se ne stanno in casa, gli uomini fuori a guadagnare il pane per sfamare le bocche in famiglia. Una donna troppo “intelligente” o “troppo ricca” crea problemi all'uomo: nessuno vuole una moglie del genere. Una donna in carriera con un Master in business administration a Londra non può che sposarsi con un occidentale. Sposarsi con un occidentale non è ancora ben visto in Cina: specie nelle zone rurali (dove più forte resta la cultura tradizionale e il patriarcato) una donna del genere è, senza mezzi termini, una puttana.

Conosco una decina di brillanti donne cinesi sui quarant'anni, che parlano un inglese molto meglio del mio, scrittrici, giornaliste, accademiche, imprenditrici: sono tutte sposate con occidentali e passano all'estero gran parte dell'anno. É questo il modello di femminilità che la Cina ha scelto? Non fatemi ridere. Provate solo a pensare se (o in che misura) queste donne siano rappresentative di oltre seicento milioni di donne cinesi. Un contadino cinese storce il naso quando gli chiedi se sposerebbe una giovane cinese che ha vissuto da migrante indipendente a Pechino o Shanghai o Canton per cinque o dieci anni. Figurati se i cinesi vogliono donne che mettano loro i piedi in testa! La mia conclusione è dunque che questi modelli di femminlità sono in primis errati e secondariamente falsi: sono semplicemente delle speculazioni commerciali.
Certo non possiamo (e io non vorrei fare mai) di tutta l'erba un fascio. È ovvio che le cose cambieranno e anzi stanno già cambiando. Per pensare a questo, basta usare la geografia e la generazione come categorie di analisi: guardate le ragazze nate negli anni novanta che vivono in città. Non so dove andranno a finire o se saranno più libere ed emancipate delle loro madri... Ma il cambiamento in corso è evidente e difficile da studiare, tanto procede velocemente.

Concludo testimoniando un incontro fatto qualche giorno fa con una giovane studentessa cinese dello Henan (provincia della Cina centrale), a Pechino in cerca di avventura, tale Changyu. A vent'anni ha già letto molti più libri di altri miei colleghi di dottorato. Ha visitato molti più posti e fatto molte più esperienze. Rivendica la sua libertà sessuale e la sua rottura con la tradizone e la morale ipocrita dominante nella società di oggi. E sa benissimo che questo la porta ad essere un'antisociale ed a non avere amici. Nonostante questo, non aveva mai parlato con uno straniero, sono io il primo. Qualche notte fa abbiamo discusso su come venga costruito il concetto di “mingan”, cioè “tema sensibile”, “tabù”, ovvero di come la gente scelga di cosa si può parlare e di cosa no.
Non è ricca, non le interessa avere successo nella vita e meno ancora diventare un'imprenditrice. Le interessa falsificare una tessera da studente per avere accesso alle biblioteche delle varie università pechinesi e sentirsi libera tra le sue scritture, il suo diario e le passeggiate di notte. Non le vanno a genio i dottorandi perché li reputa disadattati e sfigati. E probabilmente ha ragione.

Credo sia questo il modello di femminilità che sogno per la Cina.