Sunday, April 10, 2011

Alcoholic club: non solo un gruppo di ubriaconi

Titolo di questo post avrebbe potuto essere anche “Le piccole cose” o perché no “Cheers to that!”.

A marzo si sa arriva la primavera. E con essa la voglia di vita. E trasgressione. Un po' ovunque. Io racconto quella che passa qui tra le quattro mura della nostra università.

È da un po' che non scrivo. E questo mi dispiace. Significa che qualcosa non va. È un periodo di ansia e malessere generico, puntualmente guarito con laute bevute alla boia d'un Giuda e risvegli a casa di chissà chi.

Per non perderci in discorsi noiosi al sottoscritto in primis, vorrei oggi parlarvi del club alcolico dell'Università del Popolo, Pechino. Fondata da un tale Daniele Massaccesi nel lontano settembre 2010, consiste in un esiguo numero di studenti stranieri che trascorrono le notti nei locali del dormitorio del campus medesimo bisbocciando più o meno allegramente in attesa dell'alba a venire.

Il club non ha soci ma solo partecipanti. Non sono richieste quote d'ammissione, ma solo una passione spontanea ed irrazionale per il brindisi. Recita il motto ufficiale “Party on! Party on! Party on!” (da un testo punk della band belga Funeral Dress) e lo slogan più blasonato è “Everyday is hangover day”. Partecipano semiquotidianamente al club giovani ragazzi e ragazze di etnia e passaporto non ben definito: dai coreani ai brasiliani, dai giapponesi ai canadesi. Età variabile, comunque intorno agli anni venti. Segretario generale per l'anno 2010/2011 è stato scelto il più anziano (qui presente), vice segretario il più giovane, un diciassettene mongolo.

Sempre alla quotidiana ricerca di feste in giro per la città, il club ha come unico obiettivo il piacere nell'incontro collettivo, la formazione di comunità spontanee che si fasciano (termine pessimo) e sfasciano secondo frequenze anarchiche. A nessuno importa di chi sia la festa, l'importante è la condivisione di ogni mezzo alcolico e culinario, secondo la primitva e sacrcosanta ottica del “Felicità esiste solo se condivisa”.

È il perpetuarsi di uno stile. Il tramandare un'arte fondata chissà quando. In essa coinvolgono pratiche universalmente riconosciute quali quelle dell'ospitalità e della libera associazione. Come quando i più anziani (i.e. sempre il qui presente) deliberatamente informano gli ultimi arrivati a proposito di uno stile comunitario e festaiolo che prescinde dalla frustrante equazione “divertimento uguale mettere mano al portafoglio e consumare” e contro la moda di scuola anglosassone del “clubbing”. E se c'è una festa chiami dieci quindici persone e se ne presentano quaranta. E se arriva la polizia si scappa via in massa. E se finisce la birra si divide anche l'ultimo bicchiere. E se scoppia una rissa ne usciamo tutti col naso rotto oppure incolumi. E se c'è solo un letto disponibile allora ci entriamo anche in cento. Un po' così, insomma.

Non è facile intuire la funzionalità del progetto, specie se va sotto il nome di Alcoholic club. Bisognerebbe essere studenti stranieri in un paese e/o realtà distanti da casa. Vivere per mesi o anni lontani dai propri cari e dai propri costumi. In questo caso il testo risulterà familiare. E da spiegare non ci sarà più niente.

Questo post è dedicato a Chingyi, Yu, Jason, Fernando, Blanca, Daniel, Noa, Torian, Ji, Valerio, Leo, Scott, Tram, Vina, Weiwei, Mali, Iwona, Key, Emma, Eki, Ben, Murun, Jiji, Yuri, a tutti gli altri e a tutte le altre.



Scritto ascoltando ripetutamente “Going up the country” dei Canned Heat. Un saluto particolare a chi ha reso speciale la mia scorsa estate maceratese. Flò, Luca ed Alelì in primis.

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