Saturday, August 27, 2011

Le città di domani, le perversioni sociologiche di oggi...

Di questi migranti sub-sahariani con i quali lavoro da settimane credo che riuscirò a scrivere solo una volta aver smesso di lavorare. Forse.

C'è invece un'altra piccola considerazione da condividere qui nel blog. Ed è la seguente.

Ad essere sociologo e star in mezzo a questi ragazzi c'è da avercelo duro per tutto il tempo. Nel senso che ad osservare i legami che si creano e si spezzano per poi riprendersi e solidificarsi nelle mille dinamiche più o meno programmate di queste persone durante la loro esperienza di migrazione dai paesi al sud del Sahara fino a Lampedusa passando per deserto e tribù, passando per Libia in guerra e Mediterraneo affogatore di popoli... c'è da avercelo duro davvero.

Io la tessera da sociologo l'ho vinta coi punti della Mulino Bianco, e quindi tante dinamiche sociali le fiuto o le osservo per caso, senza essere in grado di scavarle a fondo, analizzarle, riprodurle in parole. Peccato, lo so.

Ad ogni modo ci pensavo quel giorno che abbiamo accompagnato un "ospite" sudanese (richiedente asilo politico, ex partecipante al progetto che curiamo) alla stazione dei treni di Macerata.

Giorni fa in via Roma ero seduto nel furgone a motore spento e osservo tre sudamericani uscire da un negozio, fermarsi a parlare con altri due sudamericani appena scesi da una macchina. Una donna col velo integrale attraversava la strada, un cinese fumava appoggiato all'uscio del suo ristorante. In viale Don Bosco dove prima c'era una piscina e la palestra di scherma ora escono in festa di venerdì i musulmani. Lì c'è ora una moschea, dove i musulmani di Macerata si radunano.

L'altro giorno invece ero a piedi sbrigando delle commissioni in alcuni quartieri storicamente popolari di Macerata: le Fosse, le Casette, la Pace. Osservavo le strette palazzine, i terrazzi, i panni stesi al sole, sembravano i quartieri Spagnoli a Napoli, quel tipo di immagine che la borghesia chiama "squallore". Non vivo a Macerata da anni e non ricordavo questo spettacolo popolare. O forse non ci avevo mai fatto caso. Sotto un sole che scioglieva le pietre, bambini giocavano qua e là, in strada. Bimbi di colore. Figli di immigrati. Altri avevano tratti di gente dell'est Europa: albanesi, kossovari, macedoni. La porta di una chiesa, l'oratorio dietro, schiamazzi di adolescenti correre dietro ad un pallone. Che lingua parlano? Non era italiano. E neanche dialetto maceratese. Donne africane tornare a casa con buste della spesa, insalata, pane, latte. Donne coperte da un lungo velo attendere il bus con una trentina di figli al seguito. Al tramonto vedi delle anziane signore del posto uscire in strada con uno sgabello, sedersi in strada a chiacchierare fra di loro. Questo resta dei quartieri popolari: anziane maceratesi e giovani immigrati. I secondi sono il futuro.

Ne sono contento. Sono contento che questi quartieri non moriranno, saranno tenuti in vita da nuove generazioni di uomini e donne venuti da paesi lontani. Persone che portano e porteranno con loro usi e costumi diversi, nuovi colori, nuovi odori. Di spezie, di pietanze, di storia, di Asia, di Africa, di America Latina.

Per quanti io trovi priva di senso (se non orribile) la parola "integrazione", domani questi bambini figli di immigrati andranno a scuola e impareranno l'italiano, l'inno di Mameli, ascolteranno le canzoni Vasco Rossi, si scambieranno le figurine di Totti, mangeranno spaghetti al sugo e quando, lontani dall'Italia, sentiranno odore di caffè avranno nostalgia dello stivale: saranno italiani! Molto più di me. Italiani musulmani, italiani con la pelle nera, italiani dai tratti asiatici. Se esiste una romantica tradizione, fiera dei suoi periodi di gloria, di "santi, poeti ed eroi", se di tutto questo io ne ho ereditato qualcosa io questo qualcosa lo passo volentieri al primo di loro che incontro per la strada.




"Hanno ammazzato Ken Saro-Wiwa / Saro-Wiwa è ancora vivo"

Il teatro degli orrori, "A sangue freddo"

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